Bruno D'Amicis - Parco Nazionale della Majella, Abruzzo - Alla ricerca della tundra appenninica, tra estate mediterranea ed era glaciale - Parte seconda



08 Luglio.
La notte è passata lentamente, tra il russare dei compagni di rifugio e il vento che scuoteva il bivacco. L'orologio ha suonato alle 4.30 ma ero già sveglio: fuori la tempesta. Una veloce occhiata al volto assonnato di mio fratello e ci siamo girati dall'altra parte. Non potevamo far altro che aspettare.
Il vento no, ma la pioggia almeno si è fermata verso le otto. Ci siamo allora alzati e fatto pigramente colazione e preparativi per la partenza. Dopo un terribile caffé solubile, pane e cioccolata eravamo stoicamente in marcia per Monte Amaro, la cima più alta della Majella. Appena risaliti sul pianoro del Monte Focalone, il vento ci ha di nuovo assaliti, stavolta con nuvole basse e una nebbia che ci accompagneranno per tutto il percorso. Lungo il sentiero, nel luogo chiamato “Primo Portone”, abbiamo incontato ancora un bel gruppo di camosci sparsi tra le meravigliose fioriture di Adonis, Doronicum, Isatis, etc. Il vento ci sferzava il volto e non ci siamo vergognati di indossare cappello di lana e guscio in gore-tex alle 10 di mattina di un giorno di Luglio... Aveva ragione il grande Giorgio Manganelli quando aveva definito l'Abruzzo “grande produttore di freddo e di silenzio.” 
Ogni tanto, facevo lo sforzo di guardare in aria e, come sempre, superior stabat gracchio, con la sua maestria di volo anche con le raffiche più sostenute. Abbiamo assistito anche all'incredibile attacco di un velocissimo falco pellegrino ai danni di uno stormo di gracchi, che si sono inseguiti nel vento, come veloci sardine davanti a un tonno. Eravamo senza parole.
Sali e scendi. Sali e scendi. Ogni tanto una breve sosta per scattare qualche immagine all'orrido della “Mucchia di Caramanico” che incide profondamente la testata della Valle dell'Orfento o alle tardive pulsatille cresciute a bordo sentiero.

Superato il secondo “Portone”, la nebbia si è sollevata giusto per una quindicina di minuti, svelando lo straordinario paesaggio primordiale della Valle Cannella. Tutte le doline di questa valle nata dalla forza di un ghiacciaio erano ancora piene di neve e la sensazione di essere sospesi tra l'estate mediterranea e l'era glaciale era forte. Ubriaco di questi spazi e dell'imponenza della visione scatterò sì e no trecento fotografie in meno di dieci minuti. Mi sono voltato un attimo, facendo appena in tempo a notare un puntino nero svanire nella nebbia in lontananza davanti a me: Matteo mi ha lasciato indietro e sta già per salire sulla cresta di Monte Amaro. Lo volevo raggiungere per non rischiare che uno di noi resti solo in queste condizioni meteorologiche, in cui è davvero troppo facile perdersi.



L'ultima ora di cammino è avvenuta nella nebbia più fitta e sotto leggere scariche di pioggia. La visibilità era così scarsa che quasi andiamo a sbattere contro il bivacco Pelino dal vivace colore rosso. Metà base spaziale, metà centro ricerche antartico, questa buffa struttura è un rifugio proprio in cima alla Majella. Considerazioni estetico-conservazionistiche a parte, eravamo felici di poterci riparare dal vento incessante e poterci cambiare i vestiti bagnati. Peccato che, una volta entrati, abbiamo dovuto constatare ancora una volta come in Italia addirittura il popolo degli escursionisti se ne freghi del bene pubblico. Sacchi ancora pieni di immondizia (addirittura resti di cocomero e bottiglie di vino in vetro!), fazzoletti, cartacce e altre schifezze riempiono il pavimento del bivacco; sotto una volta imbrattata da sciocche scritte tipo “Marta was here” oppure “Siamo i chiu forti!” di chiara matrice locale... Pazienza. Data una pulita sommaria, svuotando anche una bottiglia piena di.. urina (sic!), ci siamo cambiati e ci siamo infilati nel saccoapelo. Era l'una del pomeriggio e la sera non prometteva niente di buono. Ero un po' afflitto: temevo che tutto quello sforzo sarebbe stato inutile e che la missione sarebbe stata da ripetere.

La sveglia ha suonato alle 16.45 e ci siamo svegliati come da un coma. Fuori il vento ululava ancora ma la luce del sole entrava dagli oblò. Sono uscito tenendomi a fatica nel vento fortissimo, ma mi sono subito reso conto che quelle pazze condizioni atmosferiche stavano preparando un grande spettacolo per la serata. Il tempo di prendere il marsupio fotografico e il treppiedi e ci siamo avviati verso il Piano Amaro, pazzesco francobollo di tundra artica nel cuore del Mediterraneo, e vera meta della missione.

Ho coperto i pochi chilometri tra Monte Amaro e Cima dell'Altare in un tempo lunghissimo. La spettacolare Valle di Femmina Morta; il colpo d'occhio su Monte Sant'Angelo e Monte Acquaviva; le ondulazioni del Piano Amaro. Ovunque luci mutevoli, nuvole multicolori, camosci e fiori di tante specie diverse chiedevano giustizia alla mia reflex. Su una roccia precipite mi sono anche sporto (con mio fratello appeso alla cinta per controbilanciarmi...) per fotografare una piantina della rarissima e commovente Androsace mathildae cresciuta in una fessura. Il tempo è passato velocemente, così come velocemente è tornata la nebbia. Soltanto che stavolta il sole era più forte, riuscendo a filtrare. Sono le luci così a rendere la fotografia in montagna così speciale. Nonostante fatica e tempo, non rinuncerei mai a questi momenti in alta quota.



















In un attimo, la giornata sembrava volgere al termine, ma la Majella ci riservava il suo ultimo colpo di scena. In un cielo che volgeva nuovamente al nero, si è aperto improvvisamente un varco, e una luce viola intenso ha colorato le cime in lontananza, squisitamente incorniciate dalle nubi grigio-blu. E' stato un istante e non ho avuto nemmeno il tempo di piazzare il treppiedi: le foto sono bellissime, ma ahimé leggermente mosse. Mi sono morso il labbro quando le ho ricontrollate sullo schermo della macchina; ma poi ho sorriso, perché non era così importante: nel cuore avrei avuto sempre ben impressa l'immagine indelebile di quella magica serata sulla Montagna Madre.

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