Maurizio Biancarelli- Immagine raccontata-Un insetto e la faggeta vetusta





ll grande tronco spezzato è lì, svettante nella radura da chissà quanto tempo. In fase di deperimento, marcio, la spessa corteccia ridotta a brandelli e pieno di fori grandi e piccoli, non è più alto di tre o quattro metri. La parte superiore di quello che un tempo doveva essere un faggio colossale è crollata e giace al suo fianco. 
La luce ora penetra senza ostacoli in questo angolo di foresta, non c’è più la grande chioma ombrosa a trattenerla e decine di minuscole piantine hanno iniziato una lotta silenziosa e senza quartiere per garantirsi un posto al sole e crescere. Alla fine solo una ce la farà, dominerà sulle altre e distenderà un ombrello di verdi foglie, richiudendo il vuoto della radura, che tornerà fresca e buia. 
Intanto fa un caldo piacevole in questa mattina di luglio, mi avvicino lentamente, scrutando senza troppe speranze, quando con grande sorpresa la vedo: una Rosalia alpina sta scendendo velocemente  il grande tronco, è bellissima nella sua livrea azzurrina ed è la prima volta che la incontro, una vera emozione. 
Avevo già visitato, senza successo, altre ceppaie in questo angolo di faggeta vetusta, una di quelle poche rimaste dove gli alberi sono lasciati liberi di completare il proprio ciclo vitale. Qui una grande abbondanza di legno morto, marcescente, garantisce la possibilità di vita ad uno degli insetti che meglio indicano lo stato di naturalità di una foresta, la Rosalia alpina appunto.
La gestione economica del bosco, l’eliminazione del legno morto, una risorsa alimentare  fondamentale per la foresta, hanno reso raro questo coleottero che non trova più condizioni adatte al suo sviluppo.
Quando mi sposto nell’altro lato del grande tronco rimango stupito: sono almeno otto gli insetti presenti, un andirivieni di maschi in cerca di femmine, di accoppiamenti, di lotte. Un mondo in silenzioso, frenetico tumulto che contrasta con l’oziosa quiete circostante. 
Ci sono anche femmine fecondate che stanno deponendo le uova e si spostano, con lenta determinazione, lungo il tronco in cerca degli anfratti più idonei per deporre il loro prezioso fardello.
Da quelle uova nasceranno le larve che se ne staranno per due o tre anni all’interno del legno morto nutrendosene, completeranno il loro sviluppo e solo allora, all’inizio dell’estate, usciranno all’aperto da un foro che loro stesse hanno scavato.
Il tempo scorre mentre, tra mille contorsioni e con la schiena e il collo doloranti, cerco di inquadrare gli insetti che, nelle loro faccende affaccendati, non collaborano e si spostano di continuo, costringendomi a vere e proprie acrobazie. Da parte mia cerco di essere discreto e mi mantengo a distanza di sicurezza, per non interferire con l’attività degli abitanti di questo affollato condominio.
Quando riemergo da questa immersione totale mi accorgo che sono le tre del pomeriggio. Ho saltato il pranzo e non me ne sono neanche accorto.

Luciano Gaudenzio - L'immagine raccontata: Marmolada, un gigante che soffre, Viel del Pan, Trentino

La Marmolada e il suo ghiacciaio  - Luglio 2015

"....Quest'anno la Marmolada è più debole del solito......vedete quelle enormi placche che spiccano, di ghiaccio vivo, quasi azzurro? non si dovrebbero vedere, la neve dovrebbe ammantarle anche in questa stagione..."

Accompagnato da queste parole e dal vento che soffia forte dalla vallata sottostante alla catena del Padon, volgo le spalle al gestore del Rifugio Viel del Pan e cerco di trovare qualche composizione interessante dell'imponente massiccio che ho dinanzi.
Il rifugio è un meraviglioso balcone panoramico sul ghiacciaio e si raggiunge in poco tempo e dislivello dal Passo Pordoi. Sono assieme a Maurizio Biancarelli e al fotografo trentino Daniele Lira che ci ha accompagnato in quasi tutte le missioni realizzate in Trentino.
Un giorno sostanzialmente di riposo, questo al rifugio, reduci da lunghi e faticosi trekking nel vicino gruppo del Catinaccio. Giornate più impegnative ci aspetteranno.
Questi momenti di contemplazione e riflessione sono impagabili: ci avvicinano alla Natura e alle forze che la dominano in modo lento, dandoci il tempo di pensare, ammirare, preoccuparci.
I ghiacciai stanno soffrendo, sono vistosamente ammalati, alcuni stanno scomparendo proprio sotto i nostri occhi. Come quello vicino della Fradusta, nel Gruppo delle Pale di San Martino. I glaciologi parlano sommessamente della sua ultima estate.
Non solo animali, ma anche ghiacciai, in estinzione. Purtroppo non sarà l'ultimo. Il temuto innalzamento del clima dovuto all'irresponsabile comportamento umano sta proprio causando questi devastanti effetti e poco importa ci siano gli ottimisti a dichiarare che le fasi di recessione dei ghiacci da sempre si ripetono e che presto ci sarà un'altra piccola era glaciale.
Nonostante le convinzioni opposte e discordanti, pessimiste e no, i dubbi rimangono.
Come fotografi, come semplici osservatori della Natura, non ci rimane altro che documentare, testimoniare ciò che fu e che forse in futuro, non riusciremo più a contemplare.

Bruno D'Amicis - Splendide giornate d'autunno nel Lagorai occidentale, Trentino


Rujoch, Kreuzspitz, Fregasoga, Sasso Rotto, Slimberg… tanti, troppi nomi, sì evocativi ma che si affollano rapidamente nella mia testa man mano che essi vengono snocciolati dalla mia guida, il grande Daniele Lira, fotografo e alpinista trentino. Ho già paura di dimenticarli mentre questi mi indica con la mano le cime che coronano un paesaggio incantato. Le montagne sono già azzurre di neve, in contrasto con il giallo-oro dei larici. Più in basso, sui versanti boscati delle valli, anche i colori vivaci dei sorbi, castagni e ciliegi portano i vessilli dell’autunno, tradendo il verde austero dei pecci. Qua e là radure verdissime circondano masi e malghe di montagne. Un’armonia di luci e colori di rara bellezza. Siamo sull’uscio della Malga Pez e davanti a noi si apre la splendida Valle dei Mocheni, terra incognita di una comunità alloglotta che parla una lingua di origini germaniche e conserva tradizioni e folklore unici ed antichissimi. Con noi anche Marco Rossitti, il regista de L’Altro Versante TV ed il cine-operatore Giulio Squarci. Anche se un'aria nebbiosa permea la valle, le previsioni meteo sono ottimistiche e non vediamo l'ora di esplorare i dintorni.
  

Dopo la missione primaverile, noi di AV siamo infatti voluti tornare nel massiccio del Lagorai, stavolta in veste autunnale, per scoprirne la porzione occidentale a partire dai dintorni di Baselga di Piné. Obiettivi di questa nuova missione trentina l'Altopiano di Piné, la Valle dei Mocheni, appunto, e le piramidi di terra di Segonzano. Anche questa volta siamo ospiti di Trentino Marketing e dell'APT di Baselga di Piné.

 

Le piramidi di terra di Segonzano sono degli improbabili funghi di argilla. Colonne di terra che emergono dal bosco. Come sottili funghi sbeffeggiano la gravità trattenendo dei grossi massi in cima. Sembrano di origine extraterrestri ma non sono stati gli alieni a crearle. I ghiacciai, ritirandosi infatti hanno lasciato dietro di se abbondanti depositi morenici. Questi, in seguito, erosi dall'acqua e dalle intemperie hanno dato vita a queste strutture bizzare all'apparenza fragili, in constante deterioramento. Non è facile fotografare le piramidi di terra. Sporgendosi dai parapetti del percorso turistico si rischia davvero di brutto, camminando sui bordi franosi. Mentre rimanendo indietro si perdono le dimensioni delle piramidi. Difficile decidersi... La soluzione viene da Daniele che, esperta guida alpina, si offre di assicurarmi con delle corde permettendomi di muovermi con maggiore serenità per effettuare gli scatti. E la prospettiva del picchio muraiolo porta parecchi vantaggi.

Dopo le immagini a “bassa quota” decidiamo di onorare le cime di queste montagne e salire sopra i 2,000 metri. Saliremo al tramonto al lago Erdemolo, per fotografare la catena del Sasso Rotto e l'alta valle dei Mocheni. Mentre, l'indomani entreremo nella misteriosa Val Mattio, al cospetto del Kreuzspitz.


Il cammino per il lago Erdemolo è dolce e si svolge nella cornice straordinaria del lariceto autunnale. I colori vanno dal verde chiaro al rosso spento, passando per tutte le tonalità immaginabili di oro. Mi piace come gli alberi staccano contro il blu dei versanti innevati e ormai in ombra. Dopo due ore di sudato cammino, finalmente siamo in cresta. Davanti a noi splendida la catena del Brenta e tanti altri massicci montuosi. Mi concentro sul di un larice secolare cresciuto abbarbicato su delle rocce e aspetto che il sole vi tramonti dietro. Cerco di dare giustizia a questo monumento della natura, scattando centinaia di immagini che mi appaiono ieratiche ed evocative. Siamo fortunati perché c'è ancora tanta luce sia diretta che in controluce. L'ultima mezz'ora del giorno è la più intensa, come sempre, e rapidamente accumuliamo tante immagini nelle schede di memoria. In particolare, ricordo bellissimi colori vermigli su Monte Baldo e il Bondone a distanza, nonché i larici sotto di noi che si accendono di "luce propria".


L'indomani siamo diretti alla val Mattio, accessibile dopo una lunga sterrata in auto. Risaliamo a piedi al cospetto del monte Fregasoga già illuminato mentre incrociamo tante tracce di animali impresse sulla neve. Queste tradiscono un intenso “traffico” notturno di lepri, caprioli, volpi, martore. Fa freddo e l'erba è ben ricoperta di brina, mentre i ruscelli hanno le rive gelate. 
Fa piacere uscire dalla volta degli alberi e scaldarsi al sole. La testata della valle Mattio sotto il Kreuzspitz o Monte Croce in questa mattina limpida ricorda i paesaggi dell’ovest americano. Scene tratte da film come “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo" con Robert Redford, o qualcosa di John Ford. Mi piacerebbe avere una capanna e un camino acceso dove trascorrere l'inverno in solitudine, immerso tra libri e odore di abeti. C'è grande silenzio nella valle, interrotto a tratti dai versi rauchi delle nocciolaie e quelli metallici delle cince bigie alpestri. 

Ancora una volta si ritorna a casa con la sensazione di aver visto troppo poco di questa terra straordinaria. Forte è il desiderio di tornare ancora, ma ci sono così tante missioni da svolgere per questo progetto! Forse per completare davvero l'Altro Versante non basterebbero due vite, altro che tre anni! 

Bruno D'Amicis - L'immagine raccontata - Nero gioiello



Sembra quasi un giocattolo di gomma o una caramella alla liquirizia… in realtà la piccola salamandra alpina (Salamandra atra) è uno dei gioielli più preziosi della nostra fauna di montagna. 
Come tutte le altre specie di anfibi, anche questa salamandra ha delle necessità ecologiche ben definite che ne limitano la distribuzione sull'arco alpino. Non si trova dappertutto, ma localmente può essere anche molto abbondante. Ghiaioni o sfasciumi di rocce, umidità, stillicidio e temperature fresche, sempre in ambienti montani e lontani dalla copertura arborea: questi gli ingredienti per la presenza di questo animale.

Durante la mia recente missione nel Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi, in Veneto, durante un pomeriggio piovoso e molto umido, poco adatto a fotografare paesaggi, sono stato accompagnato dagli amici Bruno Boz (con famiglia) e Giacomo De Donà per cercare di incontrare o, meglio, per dare un appuntamento a questo animale meraviglioso. Abbiamo risalito una valle promettente, camminando parecchio di più di quanto previsto. Ben presto, tra maglia e schienale dello zaino, eravamo un bagno di sudore. Nonostante il desiderio di trovarla fosse grande, iniziavamo a chiederci se ne valesse la pena. Il sentiero stretto si snodava nel bosco con continui saliscendi e curve. Non sembrava avere fine: era come camminare sulla pelle di un serpente. La pioggia aveva gonfiato il fiume e invitato allo scoperto le salamandre pezzate, cugine pagliaccio della piccola atra. L'abbondanza di queste ultime una sorpresa per un "appenninico" come me. Dalle mie parti, rari incontri con le salamandre fanno ahimè sempre più notizia...

Arrivati nella zona in cui concentrare le ricerche, ci siamo sparpagliati sul versante più umido e fresco. Dopo una ventina di minuti di vane ricerche, il morale era già sceso e iniziavo a sentire tutta la stanchezza dei giorni precedenti. Più per puntiglio che altro, abbiamo deciso di proseguire ancora lungo il sentiero per qualche centinaio di metri.

Ecco che Giacomo, insieme al piccolo e attentissimo Matteo Boz, ci fanno cenno di raggiungerli: ne avevano trovata una! Montiamo le attrezzature per scattare qualche immagine mentre il cielo promette un altro scroscio di pioggia. Io provo a controllare più avanti ancora e, sotto una felce, belle in mostra ne trovo altre due. Iniziamo a guardarci intorno e ne contiamo a decine. Immobili o attive, sopra una pietra o nascoste dalla vegetazione. Una vera festa anfibia!

Difficile esporre per questi animali nero-inchiostro sulle rocce riflettenti. Provo di tutto: grandangolare spinto e macro. Alla fine, la foto che mi convince di più è questa: l'animale nel suo contesto di rocce e acqua. Elegantissimo. 

Nel frattempo le nuvole si sono spostate e il temporale si allontana. L'aria si fa più fresca e inizia a soffiare il vento. Le rocce si stanno asciugando e, come per magia, dove prima erano decine di salamandre, ora se ne contano giusto un paio. 
Questa è la vera magia della natura, quando concede i propri doni. E io sono felice di quel pomeriggio, perché l’Altro Versante non è solo un viaggio tra paesaggi mozzafiato e luci incredibili, ma anche un omaggio al piacere della ricerca e all'emozione della scoperta.

Maurizio Biancarelli - Parco naturale delle Alpi Marittime - Piemonte


Nuvole leggere sospinte da venti impetuosi sfiorano le cime del Corno Stella, 3050 m, al tramonto

“Tu sei dell’Italia centrale”. Abbiamo scambiato solo quattro chiacchiere, ma Augusto Rivelli, guardaparco di questa imponente area protetta piemontese, che svetta a quattro passi in linea d’aria dal Mediterraneo, riconosce subito l’accento. Non potrebbe essere diversamente, visto che lui è di origini marchigiane. Le vicende della vita e la passione per la natura lo hanno condotto quassù, ormai da molti anni. 
Siamo nel bel centro faunistico "Uomini e lupi" di Entracque  e gli sto spiegando quali sono le mie esigenze di fotografo per organizzare le prime uscite.  Di solito, la reazione più immediata in questi casi è di stupore e incredulità. Quando dici che devi essere ogni giorno nel posto giusto ben prima dell’alba, non ti puoi aspettare un’accoglienza entusiastica.
Augusto però sembra accusare bene il colpo, forse perché anche lui si interessa di fotografia, e ci mettiamo rapidamente d’accordo per la prima partenza antelucana.
Trovarsi a fotografare un’area che non si conosce, per quanto uno cerchi di documentarsi prima della partenza, non è impresa facile e l’aiuto di chi ha conoscenza profonda del territorio è di fondamentale importanza se si vogliono ottenere risultati soddisfacenti in un tempo che è sempre troppo limitato. Poi, naturalmente, sono le condizioni atmosferiche a risultare determinanti, ma su quello c’è poco da fare, bisogna prendere quello che la natura offre.
Il giorno dopo, il Defender ci porterà fino ad un punto preciso in quota dal quale saliremo verso il Colle delle Fenestrelle, un bel posto con tanto di laghetto, vista mozzafiato sul gruppo del Gelas e camosci e stambecchi, frequentatori abituali di quelle rocce e pietraie. Ottime prospettive, direi.

Stambecco al Colle delle Fenestrelle
Il mattino ci accoglie pieno di promesse, cielo stellato e uno strato di nuvole basse a nascondere le valli, meglio proprio non si poteva chiedere. 
Arrivati in prossimità del traguardo, scendo dal fuoristrada e osservo i profili nitidi delle montagne che svettano austere da ogni lato. Si percepiscono appena nella luce incerta del primo crepuscolo, ma la loro mole possente incombe e ti fa sentire piccolo, incute timore.
Augusto mi prospetta due possibilità: una verso valle e l’altra in quota. D’istinto, scelgo di salire per essere al cospetto dell’ Argentera, il massiccio cristallino vero e proprio cuore del parco.
Parcheggiamo la vettura e rapido mi affretto verso il sentiero, mentre Augusto si attarda con la macchina. Non passa molto tempo e la prima luce dell’alba scaccia il blu del crepuscolo con una sottile striscia rossa a tingere le creste rocciose più alte, accarezzate appena da uno sbuffo di nuvole leggere. 

Prima luce sulla cima e sui versanti meridionali dell'Argentera, 3297 m
Come inizio non è male, questa missione sembra cominciare sotto buoni auspici. 
Ma non tutto fila liscio: mentre saliamo la mia coscia inizia a farmi male: è uno stiramento che porto da un po' di tempo e che mi rende dolorosa la salita. Avanzo cauto facendo attenzione ai movimenti, sono lento ma al colle alla fine arriviamo salutati dal sibilo delle coturnici che, ad ali ripiegate, ci volano sopra le teste come proiettili. 
Il tempo però cambia e, dopo uno spuntino, verso mezzogiorno siamo costretti a scendere da una fitta pioggerella e da neri nuvoloni che si addensano minacciosi verso il Gelas, impedendone del tutto la vista.

Nuvole temporalesche sulla cresta del Monte Barra
A questa prima esperienza ne sono seguite altre, alcune per la verità piuttosto umide per pioggia e nuvole dense che riducevano la vista a pochi metri, ma una con un’alba di quelle da ricordare. 

Rilievi orientali del Parco in un'alba spettacolare, ma che preannuncia maltempo in arrivo
Augusto è prodigo di buoni consigli e non tarda a darmi anche una dritta sul posto giusto dove mangiare una buona polenta alla maniera piemontese. L’indicazione si rivela quanto mai azzeccata: nel loro ristorante-rifugio Baita Monte Gelas  a San Giacomo, Renzo e sua moglie Michelle, i proprietari,  fanno le cose con passione e gustare la loro polenta accompagnata da pietanze diverse è stata una esperienza memorabile. Per non parlare dei dolci, tutti fatti in casa, che chiudono degnamente il pasto e tirano su glicemia e morale specie dopo una lunga, faticosa scarpinata in montagna.
La vallata stretta che conduce al piccolo borgo è molto bella: boscosa e attraversata da un torrente ricco, è ammantata di quell’atmosfera rustica e genuina che caratterizza un po' tutta l’area protetta, non ancora contaminata da un certo modello di turismo “industriale”. Un'anima amena e selvaggia che queste valli tortuose e segrete, piene di carattere, sembra abbiano tutta l'intenzione di mantenere in piena epoca di omologazione. Non a caso, dopo una vacanza quassù, i Savoia scelsero quest’area per la costruzione di alcune belle casine di caccia, ubicate vicino al borgo e utilizzate ora come colonie. 

Il rifugio del Valasco, ex casa di caccia dei Savoia
I Reali, colpiti dalla bellezza del luogo, scelsero anche la Piana di Valasco per costruire un’altra importante casa di caccia, questa utilizzata come rifugio. 
È proprio da qui, a 1760 m sul livello del mare che, insieme a Nanni Villani, responsabile della comunicazione e marketing del parco, siamo partiti per una lunga traversata che ci ha condotto nel cuore dell’area. 
Carico come al solito, con il dolore alla gamba tenuto a bada dagli antidolorifici, ho iniziato questo lungo percorso in ottima compagnia. Nanni conosce il parco a fondo, si appassiona quando parla della ricchezza geologica di questo ampia porzione di catena alpina, la più grande area protetta ricadente interamente nel Piemonte. 
Mi ha già accompagnato in precedenza in una escursione di un giorno verso il bel lago Vei del Bouc, ma so che i prossimi due giorni saranno molto più impegnativi. Nanni racconta del lungo iter, ancora in corso,  per arrivare ad avere il riconoscimento di Patrimonio Mondiale dall’Unesco, mi racconta delle vicissitudini storiche che hanno coinvolto nel corso del tempo queste cime e valloni mentre percorriamo le strade militari, ancora intatte per lunghi tratti, costruite a costo di sforzi inimmaginabili e con mezzi ridotti, veri capolavori di ingegneria.
La ricchezza di acque superficiali colpisce: laghi grandi e piccoli, sorgenti, torrenti spuntano dappertutto. La biodiversità è notevole, come ci si può aspettare da un luogo di transizione tra l’area alpina e quella mediterranea. Numerose le popolazioni di camoscio e stambecco, parecchie le coppie di aquila reale e notevole la presenza del gipeto, reintrodotto. Ma la stazione di Juniperus phoenicea presente nella riserva omonima ci fa capire come anche le essenze termofile riescano a trovare il proprio spazio in queste montagne ricche di vita. Anche gli endemismi sono ben rappresentati, uno per tutti la Sassifraga florulenta o sassifraga dell’Argentera, in questo periodo dell’anno purtroppo sfiorita.

L'autunno è già arrivato in quota. Paesaggio attorno al rifugio Questa

Con Nanni raggiungiamo il rifugio Questa nel primo pomeriggio giusto in tempo per ripararci da una pioggia torrenziale. Stanchi e infreddoliti siamo rifocillati a dovere da Flavio, un vero montanaro che gestisce il rifugio. 



Riflessi sul lago del Claus all'alba

Con Nanni al bivacco Guiglia
Il giorno dopo si riprende il cammino prima dell’alba. Facciamo subito una visita al bel lago del Claus, incastonato fra una varietà di rocce montonate, che ci regala belle possibilità fotografiche con i riflessi dorati delle montagne circostanti.
La via del ritorno è molto lunga e impegnativa e l’ultima sosta avviene presso i laghi di Fremamorta, zona di rara bellezza, dove decido di aspettare la luce del tramonto, costringendo Nanni a condividere prima l’attesa e poi una lunga, interminabile discesa verso la macchina attraverso un sentiero tortuoso e pieno di ciottoli che ci farà raggiungere la meta a notte fatta. 

Parete occidentale dell'Argentera e Cima Nasta al tramonto da uno dei laghi di Fremamorta






Bruno D'Amicis - La Valle del Mis e i Cadini del Brenton, Veneto



















Ci sono dei momenti in cui, esplorando per la prima volta un luogo ignoto, pensi di aver già visto ed ammirato tutto il possibile. Inebriato, sazio di emozioni e bellezza, sei allora lì col bisogno di digerire, di voler metabolizzare tutti gli input di un'esperienza, quando zac! inaspettata, arriva a colpirti in pieno la vera "maraviglia"...

Ecco come mi sono sentito, quando in chiusura della mia ultima ed intensa missione per L'Altro Versante nello straordinario Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi in Veneto, sono stato accompagnato dall'amico, guida e fotografo, Giacomo De Donà a visitare la Valle del Mis e i Cadini del Brenton: piccolo regno d'acqua, incastonato nel cuore del Parco Nazionale.
Lasciata Belluno alla volta dei misteriosi Monti del Sole (una wilderness di roccia, camosci e zecche praticamente inesplorata), superiamo l'abitato di Sospirolo e alla nostra destra appare abbagliante l'azzurro del lago del Mis. Ma per quanto piacevole alla vista, non è questo bacino artificiale la meta della nostra uscita di quella sera. 

Il nostro primo obbiettivo, infatti è la cascata de "La Soffia", vicino l'omonima locanda. Già al parcheggio, il rumore dell'acqua si fa sentire. Dopo qualche decina di metri ci affacciamo sul buio inghiottitoio, che come le fauci di un animale preistorico, ingoiano lo scrosciante getto d'acqua. Le cascate sono sempre fotogeniche, ma mi piace molto il monocromatismo minerale di questo scorcio.

Le potenzialità della zona, però, iniziano a rivelarsi quando mi affaccio dal ponte sul ruscello che esce dall'orrido della cascata e ammiro le acque turchese che attraversano due pendii verdeggianti. Le fotografie si scattano quasi da sole. Stupendo.


Dopo un inizio così promettente, facciamo allora praticamente di corsa (e spaventando un camoscio finito chissacome così in basso) la breve salita per il primo dei "Cadini" del Brenton, una serie di spettacolari marmitte e cisterne, tra di loro collegate, scavate in migliaia di anni dall'acqua di un limpido ruscello. Partendo dall'altro seguiamo lentamente il sentiero in discesa.
I suoni sono esclusivamente liquidi. Armonie di gorgoglii e fragori che arrivano direttamente al cuore, ripulendo l'animo di tossine e facendoti sentire in pace con te stesso e il mondo attorno. I colori coprono tutte le variazioni possibili di verde e di azzurro. Turchese, cobalto, smeraldo: sembra il caveau di una gioielleria. Il sole è già dietro le montagne circostanti e il cielo velato è perfetto per dare giustizia ai toni incredibili e freddi di questa microscopica "Plitvice di casa nostra". 
Cala la luce e i tempi di posa si allungano enormemente. Tra una composizione e l'altra, c'è il tempo di guardarsi attorno, di godere di piccoli dettagli, di scambiare qualche battuta col compagno. E' bello rallentare un po' quando si è sempre di corsa. Il ritmo pian piano si adegua a quello dell'acqua. Forse, il dono più bello di questo angolo sorprendente e magico di cui, a causa della mia ignoranza, mai avrei sospettato l'esistenza. 
Scatto l'ultima foto che è praticamente buio. Nonostante la bellissima giornata e le tante immagini, sono rapito da questo luogo speciale e già consapevole di voler tornare a visitarlo.

Se è così bello in una livida serata di giugno, provo solo ad immaginare cosa possa diventare con le nebbie e i colori autunnali a incorniciare queste gemme d'acqua cristallina!






Luciano Gaudenzio - La Busa delle Vette, nel regno dei fiori e delle nebbie, Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi - Parte Prima

Nuvole cangianti nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi
Fioriture copiose nella nebbia della Busa delle Vette
Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi.
Quanto tempo desideravo conoscerle.
Meglio.
Perchè Belluno e le sue montagne sono vicine. Perchè alcuni di questi luoghi li ho già frequentati in passato e mi avevano affascinato. Perchè nelle mie assidue frequentazioni nelle Dolomiti Friulane le avevo spesso vicine, separate alle volte da una profonda vallata. Altre, da una linea di creste a cui difficilmente sapevo dare il nome. Neanche quando, disponendo di ore davanti a me, in attesa di un tramonto estivo, mi sforzavo di interpretare una cartina che il più delle volte non mi era amica e difficilmente me ne svelava il nome.
Perchè le Bellunesi hanno da sempre il fascino di specie vegetali leggendarie. Un amante della flora dei ghiaioni non può non avere il desiderio di vedere almeno una volta nella vita il minuto, endemico e misterioso Alisso dell'Obir. Perchè le Dolomiti Bellunesi, sono anche molto lontane. Richiedono quasi sempre trekking importanti e faticosi. Ma alla luce della missione che ho vissuto per L'Altro Versante, credetemi, i perchè elencati diventano davvero esigui rispetto alla realtà e ripagano ampiamente gli sforzi fatti per superare i decisi dislivelli.
Fioriture di Anemone narcissiflora nella Busa delle Vette
Per questa nuova missione, il raro endemismo guida deciso la mia pianificazione. Non ci sono dubbi o esitazioni. Finalmente lo conoscerò.
Sono sicuro, sarà un incontro intenso e appagante.
L'Alisso fiorisce normalmente agli inizi di luglio. Purtroppo in quegli stessi giorni dovremo essere sulla catena del Lagorai. Ci tocca quindi anticipare la missione sperando che il gran caldo abbia riscaldato i ghiaioni in cui cresce e favorito una precoce fioritura. Le notizie che arrivano direttamente dal Parco, sono confortanti e confermano le nostre speranze.
Rifugio Dal Piaz
L'appuntamento è a Passo Croce d'Aune con alcune guardie del Parco e i gestori del Rifugio Dal Piaz, Mirco e Erika. L'immediata sintonia è quella che si forma tra persone che amano la montagna e la vivono "sul campo". La vegetazione in questo periodo è straripante. Geranei selvatici, anemoni narciso, diverse specie di orchidee, gigli bianchi di San Antonio e arancione di San Giovanni, una vera e propria tavolozza di colore che vivacizza il velo di nebbia posato sulle montagne circostanti. Lungo il tragitto che ci porta al rifugio, Mirco e Erika ci raccontano della loro coraggiosa decisione di lasciare i loro rispettivi sicuri lavori da dipendenti e prendere in gestione il rifugio. Di come l'importante dislivello limiti l'afflusso alla struttura, soprattutto fuori stagione. Di come il clima sia così difficile da queste parti, con nebbie quasi onnipresenti a limitare lo sguardo che altrimenti spazierebbe importante dall'Altopiano di Asiago alle Pale di San Martino, dal Lagorai alle Dolomiti Friulane e ancora fino alla laguna di Venezia.
Grande ammirazione per tutte quelle persone che, come loro, decidono,  tra mille difficoltà e ahimè burocrazia "all'italiana" di essere liberi e realizzare il loro sogno.
Arrivati al rifugio, rapidi, sistemiamo gli zaini e a tavola pianifichiamo le tre giornate che abbiamo davanti. Mirco, vista la scarsità di ospiti presenti e la quasi certezza che nel pomeriggio di un giorno infrasettimanale non ne giungeranno altri, si offre di portarci a scoprire, nebbia permettendo, alcuni angoli nascosti delle cime che circondano la Busa delle Vette, in particolare l'anfiteatro ghiaioso di Cima 12.
Alisso dell'Obir
Partendo dal rifugio in pochi metri si guadagna il Passo delle Vette Grandi (1.994 mt): da qui lo sguardo spazia sull'anfiteatro della Busa delle Vette, testimone antico di un importante ghiacciaio. Predomina il verde punteggiato dal giallo dei botton d'oro e dal bianco dell'Anemone narcissiflora. Quando la nebbia che s'insinua dalla Val Belluna permette di intravedere, sembra che il bianco dei ghiaioni sia discontinuo, macchiato ovunque da una miriade di occhietti gialli.
E' lui! lo percepisco al volo e ne ho la conferma immediata avvicinandomi.
Il nome Obir deriva dal tedesco Hoch Obir, una nota cima delle Alpi Karawanken in cui questa piccola piantina ha il suo areale principale, ovviamente assieme alle Prealpi bellunesi e a poche modeste aree delle Alpi Giulie, in Friuli. La nebbia impedisce di realizzare degli scatti ambientati così mi limito a realizzare delle immagini ravvicinate sperando di poter rimediare nei giorni successivi.
Sono ovviamente emozionato e i miei compagni rispettano tutto il tempo che mi prendo per fotografarle e osservarle finalmente dal vivo.
Nel frattempo la nebbia scende intensa nella Busa. Ricopre dolcemente ma decisamente dapprima il fondo dell'anfiteatro per poi alzarsi e privarci della suggestione delle montagne che ci circondano.

Formazioni rocciose immerse nella nebbia
Cima 12 (prima)
Mirco ci guida sicuro dapprima attraverso sentieri ben segnati, poi, abbandonandoli, per tracce su ghiaioni ripidi.
Nel silenzio ovattato incrinato solo dal rumore dei nostri passi sulle scaglie di pietra del ghiaione che stiamo percorrendo, all'improvviso un fischio sibilato.
Ci fermiamo, e a pochi passi da noi si staglia la forma scura e inconfondibile di un camoscio.
Poi l'ombra svanisce verso l'alto e viene rapidamente inghiottita dalla nebbia.
Rimane solo il silenzio e la speranza che raggiunta la cima riusciamo a oltrepassare questa cortina fumosa.
Cima 12 (dopo)
Il cielo sopra di noi sembra maggiormente azzurro. Forse è solo un'illusione. Forse no.
Dapprima si alza una leggera brezza, poi alcuni squarci azzurri nel cielo e finalmente qualche raggio di sole s'insinua e illumina i ghiaioni e le creste di Cima 12.
Non sono cime vistose ed eleganti. Ma sono suggestive soprattutto quando, abbandonata la cima, Mirco ci conduce verso delle formazioni rocciose particolari, lastre di montagna appoggiate una sopra l'altra, quasi fossero dei libri. La memoria scorre veloce verso altri luoghi che me le ricordano intensamente, altre emozioni vissute in alta quota. Ai libri di San Daniele sopra Casso nelle Dolomiti Friulane e al "giardino roccioso" del M.te San Fior, nell'altopiano di Asiago.
Sono le nove di sera e la luce diretta del sole è svanita ormai da tempo.
Le nuvole sono però leggermente tinte di un rosa pallido e la nebbia, mai del tutto sparita, rende suggestivo questo paesaggio, fatto di rocce spezzate e apparente disordine.

Nei pressi di Cima 12
Poi, in breve, dopo appena pochi scatti l'atmosfera svanisce e rimangono solo silenzio e nebbia.
Il giorno successivo ci alziamo presto, verso le 3.30.
Usciti dal rifugio, rivolgiamo lo sguardo verso il cielo e le vette circostanti e abbiamo subito forte la sensazione che sarà una giornata lunga e faticosa, ma intensa e appagante.

Alba sul Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi












Maurizio Biancarelli - L'immagine raccontata- Una storia silenziosa



Geranium argenteum

Il Geranio argentino


Mi ha sempre affascinato la ricerca di specie botaniche montane. Spesso minute, in apparenza fragili e delicate, vivono in condizioni estreme, in luoghi difficili e inospitali: in mezzo alle pietraie, nelle fessure delle rocce, nelle forre umide, nelle vallette nivali, depressioni dove la neve resiste per gran parte dell’anno. 
La loro capacità di adattamento a freddo, vento, siccità ha del proverbiale: riescono a cavarsela e prosperare là dove le piante di valle fallirebbero miseramente. 
Per esempio riescono ad attivare la fotosintesi a temperature molto basse, di poco superiori allo zero, hanno apparati radicali molto sviluppati che si infiltrano in profondità attraverso rocce o ghiaioni fino a raggiungere il terreno, rivestono le foglie di una fitta peluria per limitare la traspirazione e resistere alla siccità estiva e alle abbondanti radiazioni ultraviolette delle alte quote o acquisiscono una forma a cuscinetto, per meglio resistere al vento e al peso della neve.
I loro fiori sono spesso grandi e dai colori intensi: gli insetti impollinatori sono scarsi lassù e non si può rischiare di passare inosservati.
Può capitare che in montagna la breve stagione vegetativa sia compromessa dal cattivo tempo, per questo la maggior parte delle piante di altitudine è specie perenne. Se un anno va male, pazienza, la pianta non fiorisce o non fruttifica ma non muore ed è pronta a riprovare l’anno successivo.
Questi straordinari esseri viventi raccontano di sé: non si muovono e non gridano, ma le loro storie mute non sono per questo meno intriganti e ci riconducono a tempi e climi assai lontani. 
Il geranio argentino, Geranium argenteum, è una vera rarità per l’Appennino centrale, risulta infatti presente solo sui Monti Sibillini, dove era stato rinvenuto per la prima volta nell’ottocento dal botanico, medico e naturalista Bertoloni e poi non più trovato per lunghissimo tempo. Sembrava estinto, ma negli anni passati è stato riscoperto e ora questa piccola, elegante pianta è tornata a impreziosire la flora delle montagne della Sibilla.
In Italia è rara dovunque anche se presente sporadicamente in Carnia, nel Bellunese, nel Bresciano, nelle Apuane e in alcune cime dell’Appennino settentrionale. 
È probabilmente una specie che aveva più vasta diffusione prima dell’ultima glaciazione, visto che attualmente vive solo nelle catene marginali delle Alpi e in poche aree dell’Appennino che non furono mai ricoperte dai ghiacciai del Quaternario.


Bruno D'Amicis - Alla scoperta delle “altre” Dolomiti: i Piani Eterni nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, Veneto

Quando il mio amico Bruno Boz, biologo e fotografo naturalista di Feltre, mi aveva parlato delle “sue” Dolomiti (delle Vette Feltrine e del gruppo del Cimonega... dei Piani Eterni e dei Monti del Sole: in due parole, del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi) e di quanto queste fossero selvagge e sconosciute, mi aveva profondamente colpito, accendendo in me una grande curiosità e la voglia di andarle a visitare. Bruno mi aveva raccontato infatti di pareti giganti e dislivelli pazzeschi, foreste di larici secolari e gole molto profonde dove scorrevano fiumi meravigliosi, dalle acque pulitissime. Montagne ricche di fauna e di specie endemiche o rare altrove, eppure poco frequentate dal turismo di massa, che invece ha colonizzato gran parte delle arcinote
Dolomiti considerate D.O.C. della parte settentrionale della Provincia di Belluno. Era deciso: avrei visitato il Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi nel 2015 con L’Altro Versante!

E così, prima che arrivasse la scorsa primavera, con Bruno abbiamo pianificato una prima breve missione, quasi una ricognizione, da effettuarsi nei primi giorni di Giugno. Sapevamo già che una non sarebbe stata sufficiente. Abbiamo scelto di iniziare dalla zona dei Piani Eterni e poi di fare una visita (aggiungerei “doverosa”) alle valli dei fiumi Mis e Ardo.


I Piani Eterni, altopiano dal nome piuttosto “importante”, si sviluppano a a circa 1700 metri di quota. Si tratta di una vasta conca di origine carsica circondata da alte montagne. Un mare di erba color smeraldo e fischi di marmotte delimitato da un piano sollevato con affioramenti calcarei e “campi carreggiati” a sud (qui ci sono tantissime cavità e grotte: gli speleologi sono già scesi oltre 1000 metri sottoterra!) e ripide montagne di strano calcare rossastro a nord. Larici e abeti a sud, aquile e camosci a nord. In mezzo due malghe, Erera e Brendol, e una bellissima stalla del Settecento restaurata di recente.

Tutto stupendo, sì, ma prima di arrivare ad ammirare i Piani Eterni, uno deve ben faticare gli oltre mille metri di dislivello che attendono l'escursionista che parte dalla Val Canzoi. Niente di difficile, capiamoci, si tratta solo una lunga e tortuosa strada, a tratti asfaltata, che si inerpica (un po' noiosamente devo aggiungere) su uno dei pendii della valle del limpido torrente Caorame e sopra il lago artificiale della Stua.
Io e (l'altro) Bruno eravamo pronti ad affrontarla a ogni costo, ma, per fortuna, grazie alla generosa collaborazione del Parco Nazionale e del Corpo Forestale, oltre all'ospitalità in quota è stato anche offerto un passaggio in auto, non a noi... ma ai nostri zaini pesantissimi. Il mattino che siamo partiti, ho quindi fatto conoscenza con Enrico Vettorazzo del Parco Nazionale e con due simpaticissimi forestali, il comandante Dalla Rosa e la guardia Fritz. Last but not least, ad accompagnarci c'era anche l'amico Giacomo De Donà, giovane guida del Parco nonché fotografo dotatissimo e con “il cuore al posto giusto”. Così siamo partiti, zaini, bottiglie di vino e pacchi di pasta in fuoristrada con i forestali. Noi quattro invece a piedi, consapevoli della fatica che ci attendeva, ma anche felici di camminare, una tantum, senza alcun peso sulle spalle.

Anche se la salita è stata lunga, nonostante le piacevoli conversazioni e gli incontri con tante specie, ve la faccio comunque breve. Quasi alla fine, staccandoci dalla strada e prendendo il sentiero del Porzil, ci siamo presto trovati nel bosco, odore di muschi e occhi attenti a francolini e galli cedroni... Nessun animale si è rivelato al nostro sguardo, ma l'attenzione è stata premiata da una rarità, la Cortusa di Mattioli, una bella primulacea scovata da Enrico. Ancora qualche centinaio di metri e siamo tornati a vedere la luce. Tanta. Un mare di luce! Quello è stato il primo impatto con i Piani Eterni: la luce che in montagne e valli così ripide e profonde è rarità riempie questa terrazza naturale che sa tanto di piccolo Paradiso.


La malga Brendol, gestita dai Forestali, è semplicemente stupenda, la base ideale per esplorare nei giorni successivi i dintorni dei Piani Eterni. La giornata è ancora lunga e così, una volta cambiate le magliette, decidiamo di proseguire poco oltre e andare a vedere se in uno stagno a breve distanza ci sia qualche anfibio interessante. Veniamo ripagati da una coppia di rospi smeraldini in accoppiamento, che, a questa altitudine, fa notizia. Anche se una missione per AV si concentra al 90% sui paesaggi, io, da biologo, non riesco a contenere la mia curiosità e continue domande sulle tante specie animali che sembrano frequentare la zona. Quando rientriamo alla malga, gli amici forestali ci accolgono con un piatto di pasta fumante e un buon rosso: il Paradiso, davvero. Dopo pranzo il cielo minaccia pioggia e si sentono i primi tuoni. Non c'è altro da fare, se non sdraiarsi un attimo in branda e recuperare un po' di forze, ascoltando assai piacevolmente il temporale che infuria fuori dalla finestra.

Dopo un paio d'ore, la pioggia ha smesso, ma l'aria è rimasta molto carica di umidità e il cielo pieno di foschia. Non sarà il tramonto che attendevo, meglio quindi ripiegare su dettagli e sugli abitanti dell'altopiano. Mi avvicino a una marmotta tra i ranuncoli, strisciando malvolentieri nell'erba bagnata. Poi, con Bruno e Giacomo, cerchiamo timidi marassi tra le rocce e i cespugli di mugo fino al tramonto. Qualche scatto poco efficace al paesaggio (ci sarà da rifarsi nei giorni successivi!) ed è già ora di cena. Tra un boccone e l'altro, abbiamo ammirato un branco di cerve fuori dalla finestra che scendevano a brucare nella piana insieme a una fitta nebbiolina. All'ora blu, la magia si è compiuta. Seppure io non riuscissi più a vederle, le cerve sono rimaste impressionate sul sensore della mia reflex insieme all'azzurro intenso della luce che svaniva. Ero soddisfatto di quanto mostrava il display della mia macchina: ancora una volta avevo potuto assistere a quell'attimo fugace di eternità che rende questo nostro lavoro così affascinante.


Luciano Gaudenzio - L'immagine raccontata: Tre Cime insolite?, Dolomiti di Sesto, Alto Adige



La nostra missione è fotografare luoghi poco conosciuti per valorizzarli. Fotografare luoghi celeberrimi, invece, perché? Noi de L'Altro Versante ci siamo chiesti più volte se per il nostro progetto avesse un senso fotografare nuovamente luoghi considerati come "icone" della montagna italiana. Ogni qual volta ne abbiamo discusso, immancabilmente il nome delle Tre Cime di Lavaredo veniva preso ad esempio. Alla fine ci siamo convinti che anche queste celebrità andassero in qualche modo riscoperte, ma come? Sotto una luce nuova? Cercando inquadrature particolari? In condizioni meteorologiche diverse?

Conosco la zona delle Tre Cime da tanto, tantissimo tempo. Ancora prima di essere un fotografo, infatti, la frequentavo come semplice appassionato di natura e trekker. Quante salite, quante notti passate nei diversi rifugi della zona: dal Comici al Carducci, dal Pian di Cengia al più conosciuto Locatelli! Poi, sono arrivate le prime immagini. Le Tre Cime illuminate al tramonto, un immancabile classico della fotografia di paesaggio. Sembra quasi che quei tre "fratelloni" di dolomia siano emersi in una posizione geografica e con un'inclinazione tali da essere baciati perfettamente dagli ultimi raggi del sole. Per curiosità, sono tornato a sfogliare i plasticoni dove sono archiviate le mie vecchie diapositive e ho contato almeno 200 immagini, che raccontano dei tramonti infuocati e delle cime perfettamente illuminate, contornate da nuvolette rosa, che ho potuto ammirare negli anni.
Torno sempre volentieri da queste parti, possibilmente fuori stagione. Maggio e giugno sono mesi bellissimi per visitarle: sui ghiaioni ci sono ancora i segni bianchi dell'inverno.
Fotografare questo affascinante luogo in modo diverso è però molto difficile. l primi due tentativi, infatti, sono falliti. Luce perfetta il primo giorno: immagini tuttavia uguali a quelle che compaiono nei magneti da frigorifero che si vedono giù, al Lago di Misurina. Il secondo tentativo è stato durante una giornata che promette bene, ovvero una di quelle in cui la variabilità del tempo lascia auspicare luci inattese. Ho atteso la fine di un temporale, con fulmini a ripetizione sul Lago di Misurina. Poi mi sono incamminato verso il Sasso di Sesto e ancora oltre, in una zona caratterizzata dai resti della Grande Guerra. Aspetto, aspetto, ancora e ancora, finché il cielo così promettente si è tinto di un grigio senza speranza.

La terza volta, invece, sono tornato in compagnia di un caro amico, la giornata era veramente splendida. Poi, come succede tantissime volte in montagna, all'improvviso densi nuvoloni neri si sono affacciati all'orizzonte. Provenivano dalla Val Pusteria, da Dobbiaco. Abbiamo deciso comunque di proseguire verso il punto di ripresa concordato. Nel cielo le nuvole correvano velocissime. Si alternavano quelle cariche di pioggia, di un plumbeo intenso, a quelle dall'aspetto più innocuo, bianche e cremose. Anche la luce sembrava impazzire: raggi di sole si insinuavano tra le nubi per colorare la dolomia. Non sapevamo più dove guardare né cosa inquadrare. La situazione era davvero interessante, ma i lampi dei fulmini, attorno a noi e le prime gocce di pioggia ci preoccupavano non poco. Il cielo ha cominciato a tingersi di giallo con venature magenta. Cercavamo di proteggere l'attrezzatura dalle raffiche di pioggia portate dal vento. Poi, tutto a un tratto, il cielo vivido di luce, si è spento. Il temporale si è spostato verso i Cadini di Misurina.

Forse nemmeno questa è ancora l'immagine che ho in mente per celebrare queste magnifiche montagne. Ci tornerò sicuramente per realizzarla, anche se forse, la foto perfetta non arriverà mai. Perché anche le montagne più famose d'Italia indossano ogni giorno una veste nuova e unica, che invita a riscoprirle ancora una volta.








Bruno D'Amicis - L'immagine raccontata: feeling blue, PN Dolomiti Bellunesi, Veneto


Si dice che nella fotografia naturalistica, il tempismo sia tutto. Cogliere l'attimo saliente di un'azione, il momento giusto dell'anno per documentare un fenomeno biologico particolare o la luce più suggestiva per rendere magica una composizione... Non c'è niente di più vero, tutti gli sforzi per cercare e inquadrare un soggetto diventano vani, infatti, se non si sceglie la situazione adatta per valorizzare l'immagine.

Questo monito mi tornato in mente pochi giorni fa durante la mia ultima missione nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi in Veneto. Tra i siti selezionati per l'Altro Versante, ho visitato la bellissima località dei "Piani Eterni" tra Belluno e Feltre. Questo strano altopiano, quasi un cratere circondato da alte montagne, è un posto a sé. Un po' Canada, un po' Appennino, è un mare d'erba tra i mughi e gli affioramenti rocciosi. Come tutti i luoghi che si sviluppano in piano non è un sito facile da fotografare e, inoltre, un nome così importante, "Piani Eterni" richiede un minimo di attenzione in più per dare giustizia al "senso del luogo".

Dopo una lunga camminata per arrivare alla malga che ci avrebbe ospitato per tre giorni, mi sono messo ad esplorare i dintorni. Ero stato colpito dai campi carreggiati e dai massi erratici, testimoni silenziosi di un passato glaciale e turbolento, che caratterizzavano un lato dei Piani. Avevo provato varie inquadrature, ma quella che mi convinceva di più vedeva le rocce in primo piano condurre lo sguardo verso un grosso masso lasciato lì dalla forza dei ghiacciai. L'immagine non era male, ma l'afa di quella serata non aveva permesso un tramonto avvincente e così mi ero dovuto accontentare di una fotografia piuttosto standard, dai toni abbastanza piatti.

Due giorni dopo, all'alba, che a giugno, diventa una cosa tosta da gestire e vuol dire alzarsi prima delle quattro del mattino, la bruma riempiva la conca erbosa. Ancora prima di prendere il caffè sono uscito e ho ammirato una mezzaluna che brillava sopra i colori cilestrini di quello scenario mattutino.
È stato un attimo. Senza dire nulla agli altri, ho preso fotocamera, grandangolo e treppiedi e sono corso nella nebbia a ricercare quello stesso masso e un'inquadratura simile a quella scattata il primo giorno.

Stavolta le montagne erano di un blu intenso e i confini meno definiti e scontati. Mi sono concesso qualche scatto e via, poiché mi attendeva una lunga esplorazione su un'altra montagna. Non c'era stato molto tempo per sperimentare, ma almeno avevo messo da parte una fotografia che portasse in sé un minimo dell'"eternità" di quel posto così particolare.