Bruno D'Amicis - Una mattina di incanto al cospetto del Sirente


Parco Naturale Regionale Sirente Velino, Abruzzo - 2 Febbraio 2015
Per chi attraversa in auto l'Altipiano delle Rocche, vasta piana montana tanto bella e unica quanto bistrattata da speculazioni e lottizzazioni, partendo da Ovindoli e dopo aver superato il piccolo borgo di Rovere, lo sguardo spazia dalle cime dei Monti Ocre e Cagno a sinistra, per sollevarsi sull'imponente catena del Gran Sasso e venire infine attratto da una misteriosa parete rocciosa, lontana e selvaggia, ruvida ed indimenticabile. Viene quasi naturale svoltare a destra per andare a curiosare di cosa si tratti. Da lì, la strada attraversa una bella faggeta ed è lunga e tortuosa. Dopo qualche chilometro, quasi all'improvviso la vista si apre su una piana e soprattutto sulla meravigliosa parete del Monte Sirente, forse la più “dolomitica” delle cime appenniniche. Strana montagna, questa: morbida ed ondulata a meridione, precipita invece per diverse centinaia metri a nord, creando una parete lunghissima che sovrasta per chilometri lo Shangri-La che è la remota Valle Subequana.

Quella notte aveva nevicato tanto, ma poi il cielo si era aperto e la temperatura era scesa parecchio sotto lo zero. Sapete: sono zone proprio freddissime, queste. Le ruote della macchina scricchiolavano sulla neve gelata e io prundentemente guidavo pianissimo. Ciò però anche per avere la possibilità di ammirare gli alberi carichi di neve e la prima luce giocare con mille riflessi sul manto bianco purissimo e tra le trine e merletti delle costruzioni glaciali. C'ero solo io. Che lusso uscire sul campo di lunedì mattina presto! Per un attimo il pensiero mi era andato sadicamente alle persone nel traffico in quel momento sul Raccordo Anulare di Roma o in cento altre città italiane... Amo questa vita!


Dai piedi della montagna, sino alla cima, tutto era gonfio di neve, così perfetta da sembrare panna montata. Uno spicchio di luna ancora faceva capolino in cielo. Ho accostato e poi spento l'auto e, nonostante il tepore dell'abitacolo, mi sono fatto forza e sono sceso. Il silenzio si era ripresto tutto. 
I pinnacoli di roccia della parte più occidentale della parete rocciosa erano tutti incrostati di ghiaccio e splendevano come denti bianchissimi. Le rocce e le balze delle gigantesche meringhe. Poco sotto faggi secolari sembravano batuffoli di cotone. Tutto era fermo, ineluttabilmente congelato nell'aria mordace del mattino. Solo una volta ho sentito il richiamo di una cincia coraggiosa. A pochi metri da me la coltre bianca era punteggiata di segni: tra i cespugli era passato un timido capriolo; le impronte telegrafiche di una volpe indaffarata si sviluppavano in linee e circonvoluzioni attorno a quelle da “aratro” di un grosso cinghiale. Un po' più in là riuscivo poi a scorgere la pista tesa e consapevole di due lupi che avevano attraversato la radura. Bello come le storie della notte fossero lì, pronte ad essere raccontate a chi prestasse attenzione! Ma questa volta non avevo tempo.



Senza pensarci su troppo ho montato il 70-200 sulla reflex ed entrambi sul treppiedi. Avevo in mente diverse inquadrature strette delle rocce e delle cenge innevate. Dopo il sorgere del sole si era sollevato il vento. L'aria in quota faceva sollevare la neve fresca come zucchero su un pandoro. Stralci di nuvole giocavano in cresta creando ogni volta uno sfondo diverso. La luce rimbalzava gialla sui crinali, intensificando il blu delle aree in ombra e delineando i diversi piani. C'era da muoversi in fretta, prima che finisse tutto. Dettagli o visioni più ampie; panoramiche e verticali: mi sono lasciato prendere dal gioco intellettuale della composizione. Ne dovevo approfittare: più tardi, infatti, avrei calzato scarponi invernali e ciaspole, per avvicinarmi piano piano a quel regno di ghiaccio e solitudine...

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