Maurizio Biancarelli - Parco naturale delle Alpi Marittime - Piemonte


Nuvole leggere sospinte da venti impetuosi sfiorano le cime del Corno Stella, 3050 m, al tramonto

“Tu sei dell’Italia centrale”. Abbiamo scambiato solo quattro chiacchiere, ma Augusto Rivelli, guardaparco di questa imponente area protetta piemontese, che svetta a quattro passi in linea d’aria dal Mediterraneo, riconosce subito l’accento. Non potrebbe essere diversamente, visto che lui è di origini marchigiane. Le vicende della vita e la passione per la natura lo hanno condotto quassù, ormai da molti anni. 
Siamo nel bel centro faunistico "Uomini e lupi" di Entracque  e gli sto spiegando quali sono le mie esigenze di fotografo per organizzare le prime uscite.  Di solito, la reazione più immediata in questi casi è di stupore e incredulità. Quando dici che devi essere ogni giorno nel posto giusto ben prima dell’alba, non ti puoi aspettare un’accoglienza entusiastica.
Augusto però sembra accusare bene il colpo, forse perché anche lui si interessa di fotografia, e ci mettiamo rapidamente d’accordo per la prima partenza antelucana.
Trovarsi a fotografare un’area che non si conosce, per quanto uno cerchi di documentarsi prima della partenza, non è impresa facile e l’aiuto di chi ha conoscenza profonda del territorio è di fondamentale importanza se si vogliono ottenere risultati soddisfacenti in un tempo che è sempre troppo limitato. Poi, naturalmente, sono le condizioni atmosferiche a risultare determinanti, ma su quello c’è poco da fare, bisogna prendere quello che la natura offre.
Il giorno dopo, il Defender ci porterà fino ad un punto preciso in quota dal quale saliremo verso il Colle delle Fenestrelle, un bel posto con tanto di laghetto, vista mozzafiato sul gruppo del Gelas e camosci e stambecchi, frequentatori abituali di quelle rocce e pietraie. Ottime prospettive, direi.

Stambecco al Colle delle Fenestrelle
Il mattino ci accoglie pieno di promesse, cielo stellato e uno strato di nuvole basse a nascondere le valli, meglio proprio non si poteva chiedere. 
Arrivati in prossimità del traguardo, scendo dal fuoristrada e osservo i profili nitidi delle montagne che svettano austere da ogni lato. Si percepiscono appena nella luce incerta del primo crepuscolo, ma la loro mole possente incombe e ti fa sentire piccolo, incute timore.
Augusto mi prospetta due possibilità: una verso valle e l’altra in quota. D’istinto, scelgo di salire per essere al cospetto dell’ Argentera, il massiccio cristallino vero e proprio cuore del parco.
Parcheggiamo la vettura e rapido mi affretto verso il sentiero, mentre Augusto si attarda con la macchina. Non passa molto tempo e la prima luce dell’alba scaccia il blu del crepuscolo con una sottile striscia rossa a tingere le creste rocciose più alte, accarezzate appena da uno sbuffo di nuvole leggere. 

Prima luce sulla cima e sui versanti meridionali dell'Argentera, 3297 m
Come inizio non è male, questa missione sembra cominciare sotto buoni auspici. 
Ma non tutto fila liscio: mentre saliamo la mia coscia inizia a farmi male: è uno stiramento che porto da un po' di tempo e che mi rende dolorosa la salita. Avanzo cauto facendo attenzione ai movimenti, sono lento ma al colle alla fine arriviamo salutati dal sibilo delle coturnici che, ad ali ripiegate, ci volano sopra le teste come proiettili. 
Il tempo però cambia e, dopo uno spuntino, verso mezzogiorno siamo costretti a scendere da una fitta pioggerella e da neri nuvoloni che si addensano minacciosi verso il Gelas, impedendone del tutto la vista.

Nuvole temporalesche sulla cresta del Monte Barra
A questa prima esperienza ne sono seguite altre, alcune per la verità piuttosto umide per pioggia e nuvole dense che riducevano la vista a pochi metri, ma una con un’alba di quelle da ricordare. 

Rilievi orientali del Parco in un'alba spettacolare, ma che preannuncia maltempo in arrivo
Augusto è prodigo di buoni consigli e non tarda a darmi anche una dritta sul posto giusto dove mangiare una buona polenta alla maniera piemontese. L’indicazione si rivela quanto mai azzeccata: nel loro ristorante-rifugio Baita Monte Gelas  a San Giacomo, Renzo e sua moglie Michelle, i proprietari,  fanno le cose con passione e gustare la loro polenta accompagnata da pietanze diverse è stata una esperienza memorabile. Per non parlare dei dolci, tutti fatti in casa, che chiudono degnamente il pasto e tirano su glicemia e morale specie dopo una lunga, faticosa scarpinata in montagna.
La vallata stretta che conduce al piccolo borgo è molto bella: boscosa e attraversata da un torrente ricco, è ammantata di quell’atmosfera rustica e genuina che caratterizza un po' tutta l’area protetta, non ancora contaminata da un certo modello di turismo “industriale”. Un'anima amena e selvaggia che queste valli tortuose e segrete, piene di carattere, sembra abbiano tutta l'intenzione di mantenere in piena epoca di omologazione. Non a caso, dopo una vacanza quassù, i Savoia scelsero quest’area per la costruzione di alcune belle casine di caccia, ubicate vicino al borgo e utilizzate ora come colonie. 

Il rifugio del Valasco, ex casa di caccia dei Savoia
I Reali, colpiti dalla bellezza del luogo, scelsero anche la Piana di Valasco per costruire un’altra importante casa di caccia, questa utilizzata come rifugio. 
È proprio da qui, a 1760 m sul livello del mare che, insieme a Nanni Villani, responsabile della comunicazione e marketing del parco, siamo partiti per una lunga traversata che ci ha condotto nel cuore dell’area. 
Carico come al solito, con il dolore alla gamba tenuto a bada dagli antidolorifici, ho iniziato questo lungo percorso in ottima compagnia. Nanni conosce il parco a fondo, si appassiona quando parla della ricchezza geologica di questo ampia porzione di catena alpina, la più grande area protetta ricadente interamente nel Piemonte. 
Mi ha già accompagnato in precedenza in una escursione di un giorno verso il bel lago Vei del Bouc, ma so che i prossimi due giorni saranno molto più impegnativi. Nanni racconta del lungo iter, ancora in corso,  per arrivare ad avere il riconoscimento di Patrimonio Mondiale dall’Unesco, mi racconta delle vicissitudini storiche che hanno coinvolto nel corso del tempo queste cime e valloni mentre percorriamo le strade militari, ancora intatte per lunghi tratti, costruite a costo di sforzi inimmaginabili e con mezzi ridotti, veri capolavori di ingegneria.
La ricchezza di acque superficiali colpisce: laghi grandi e piccoli, sorgenti, torrenti spuntano dappertutto. La biodiversità è notevole, come ci si può aspettare da un luogo di transizione tra l’area alpina e quella mediterranea. Numerose le popolazioni di camoscio e stambecco, parecchie le coppie di aquila reale e notevole la presenza del gipeto, reintrodotto. Ma la stazione di Juniperus phoenicea presente nella riserva omonima ci fa capire come anche le essenze termofile riescano a trovare il proprio spazio in queste montagne ricche di vita. Anche gli endemismi sono ben rappresentati, uno per tutti la Sassifraga florulenta o sassifraga dell’Argentera, in questo periodo dell’anno purtroppo sfiorita.

L'autunno è già arrivato in quota. Paesaggio attorno al rifugio Questa

Con Nanni raggiungiamo il rifugio Questa nel primo pomeriggio giusto in tempo per ripararci da una pioggia torrenziale. Stanchi e infreddoliti siamo rifocillati a dovere da Flavio, un vero montanaro che gestisce il rifugio. 



Riflessi sul lago del Claus all'alba

Con Nanni al bivacco Guiglia
Il giorno dopo si riprende il cammino prima dell’alba. Facciamo subito una visita al bel lago del Claus, incastonato fra una varietà di rocce montonate, che ci regala belle possibilità fotografiche con i riflessi dorati delle montagne circostanti.
La via del ritorno è molto lunga e impegnativa e l’ultima sosta avviene presso i laghi di Fremamorta, zona di rara bellezza, dove decido di aspettare la luce del tramonto, costringendo Nanni a condividere prima l’attesa e poi una lunga, interminabile discesa verso la macchina attraverso un sentiero tortuoso e pieno di ciottoli che ci farà raggiungere la meta a notte fatta. 

Parete occidentale dell'Argentera e Cima Nasta al tramonto da uno dei laghi di Fremamorta






Bruno D'Amicis - La Valle del Mis e i Cadini del Brenton, Veneto



















Ci sono dei momenti in cui, esplorando per la prima volta un luogo ignoto, pensi di aver già visto ed ammirato tutto il possibile. Inebriato, sazio di emozioni e bellezza, sei allora lì col bisogno di digerire, di voler metabolizzare tutti gli input di un'esperienza, quando zac! inaspettata, arriva a colpirti in pieno la vera "maraviglia"...

Ecco come mi sono sentito, quando in chiusura della mia ultima ed intensa missione per L'Altro Versante nello straordinario Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi in Veneto, sono stato accompagnato dall'amico, guida e fotografo, Giacomo De Donà a visitare la Valle del Mis e i Cadini del Brenton: piccolo regno d'acqua, incastonato nel cuore del Parco Nazionale.
Lasciata Belluno alla volta dei misteriosi Monti del Sole (una wilderness di roccia, camosci e zecche praticamente inesplorata), superiamo l'abitato di Sospirolo e alla nostra destra appare abbagliante l'azzurro del lago del Mis. Ma per quanto piacevole alla vista, non è questo bacino artificiale la meta della nostra uscita di quella sera. 

Il nostro primo obbiettivo, infatti è la cascata de "La Soffia", vicino l'omonima locanda. Già al parcheggio, il rumore dell'acqua si fa sentire. Dopo qualche decina di metri ci affacciamo sul buio inghiottitoio, che come le fauci di un animale preistorico, ingoiano lo scrosciante getto d'acqua. Le cascate sono sempre fotogeniche, ma mi piace molto il monocromatismo minerale di questo scorcio.

Le potenzialità della zona, però, iniziano a rivelarsi quando mi affaccio dal ponte sul ruscello che esce dall'orrido della cascata e ammiro le acque turchese che attraversano due pendii verdeggianti. Le fotografie si scattano quasi da sole. Stupendo.


Dopo un inizio così promettente, facciamo allora praticamente di corsa (e spaventando un camoscio finito chissacome così in basso) la breve salita per il primo dei "Cadini" del Brenton, una serie di spettacolari marmitte e cisterne, tra di loro collegate, scavate in migliaia di anni dall'acqua di un limpido ruscello. Partendo dall'altro seguiamo lentamente il sentiero in discesa.
I suoni sono esclusivamente liquidi. Armonie di gorgoglii e fragori che arrivano direttamente al cuore, ripulendo l'animo di tossine e facendoti sentire in pace con te stesso e il mondo attorno. I colori coprono tutte le variazioni possibili di verde e di azzurro. Turchese, cobalto, smeraldo: sembra il caveau di una gioielleria. Il sole è già dietro le montagne circostanti e il cielo velato è perfetto per dare giustizia ai toni incredibili e freddi di questa microscopica "Plitvice di casa nostra". 
Cala la luce e i tempi di posa si allungano enormemente. Tra una composizione e l'altra, c'è il tempo di guardarsi attorno, di godere di piccoli dettagli, di scambiare qualche battuta col compagno. E' bello rallentare un po' quando si è sempre di corsa. Il ritmo pian piano si adegua a quello dell'acqua. Forse, il dono più bello di questo angolo sorprendente e magico di cui, a causa della mia ignoranza, mai avrei sospettato l'esistenza. 
Scatto l'ultima foto che è praticamente buio. Nonostante la bellissima giornata e le tante immagini, sono rapito da questo luogo speciale e già consapevole di voler tornare a visitarlo.

Se è così bello in una livida serata di giugno, provo solo ad immaginare cosa possa diventare con le nebbie e i colori autunnali a incorniciare queste gemme d'acqua cristallina!