Bruno D'Amicis - Alla scoperta del vulcano addormentato: il Montiferru, Sardegna



Sono nella Sardegna occidentale e alla guida lungo la bellissima strada statale 292 tra Oristano e Bosa. Alla mia sinistra scorre veloce un mare splendido, selvaggio e giustamente celebre in tutto il Mondo per il suo azzurro intenso. A destra si intravedono aspri rilievi rocciosi, ma giusto appena: sono coperti da nuvole basse e nebbia. Ancora qualche chilometro e la strada poi abbandona la riva del mare e, superata Cuglieri, si inerpica velocemente verso gli ora imponenti e brulli bastioni di roccia che emergono dalla vegetazione sempreverde. Curva dopo curva, attraverso un bosco fitto e buio di lecci e agrifogli secolari ricoperti di muschi e licheni avvolto dalla nebbia: è un bosco meraviglioso, ma il Mediterraneo sembra già così lontano!


Arrivo al luogo dell’appuntamento che il cielo è ormai tutto coperto e tira un vento fortissimo. Ad attendermi presso la zona nota come Badde Urbara, dove mostruose antenne e ripetitori della RAI si stagliano contro un cielo altrimenti libero, l’amico Giuliano Schintu di Santu Lussurgiu, che mi accompagna alla scoperta del misterioso Montiferru. In realtà Giuliano è l’amico di un amico, il caro Michele Rundine, anch'egli di Santu Lussurgiu anche se oramai marchigiano d’adozione e impossibilitato ad accompagnarmi, poiché bloccato sul "continente". Anche Michele come me è fotografo di natura e membro dell’AFNI (Associazione Fotografi Naturalisti Italiani) ed è stato lui ha propormi le “sue" montagne come meta di una nuova missione per “L’Altro Versante”. La primissima in Sardegna! 

A dover di cronaca, questa poi non è nemmeno la mia prima escursione sul Montiferru, ma già la quarta da quando è iniziata la missione. In effetti, non è affatto un posto facile da fotografare. La vicinanza al mare e l’esposizione ai venti rendono il clima su queste montagne assolutamente imprevedibile. Lo raccontano i tanti alberi contorti, piegati dal Maestrale che qui ulula prepotente. O l’abbondanza di muschi e licheni, e di fitti cespugli di erica, pieni di polline che sembra polvere di cipria: elementi vegetali che tradiscono condizioni ambientali simili a quelli delle coste atlantiche. Infatti sembra di essere, non so, in Galizia, piuttosto che su un’isola mediterranea! 
Dal lato interno, la zona d'altronde ha un aspetto semi-desertico e in alcuni punti incendi e pascolo non hanno lasciato molta vegetazione. Qui sono stati effettuati abbondanti rimboschimenti con conifere improbabili a ricoprire quello che un tempo doveva ospitare la vegetazione originaria. Se però ci si dimentica di stradine, antenne e pinete il paesaggio è grandioso e selvaggio. Nonostante la fauna sia ancora abbastanza ricca, con martore, cervi, mufloni e falchi pellegrini, vien facile immaginare un tempo quando non mancavano voli di grifoni sulle falesie e avvoltoi monaci costruire il loro nido enorme sui lecci centenari. 

Ecco perché sono ancora qui sul Montiferru. Voglio ritentare la sorte, sperando finalmente in un tramonto che mi permetta di dare il giusto risalto alle sue guglie basaltiche, alle falesie scure e minacciose nate da colate laviche. Attendo una luce che renda duratura l’emozione così attesa di un'apparizione dei mufloni... Voglio onorare chi mi ha fatto conoscere questo posto. Ma la verità è che in fondo mi piace proprio il Montiferru, così indifferente e poco appariscente. Una montagna dal fascino che conquista piano piano. E così scopro di essermi innamorato del canto delle sue magnanine, dei profumi della sua macchia, delle forre profonde e buie, dei corvi imperiali che fanno acrobazie nel vento. 

Giuliano sale sulla mia auto e ci inoltriamo su una sterrata dal fondo piuttosto sconnesso, che ci porterà in una delle zone dove ho già individuato alcune inquadrature interessanti e dove voglio attendere di nuovo la fortuna. Insieme abbiamo girato già diverse località del massiccio: Michele Rundine ci aveva fornito una lista lunga e commossa dei luoghi da non perdere assolutamente. Ci sarebbero volute non una ma tre, quattro missioni per dare giustizia a così tanti posti meravigliosi. Dalle cascate di Sos Molinos al bosco di agrifogli di Silbanis. La veduta dalla Madonnina di Su Monte 'e s'ozzu e ancora lo sguardo che dalla cima di Monte Entu spazia sul mare sino a Capo Marargiu: che meraviglia! Ho anche avuto la fortuna di essere accompagnato da un'altra guida d'eccezione, il caro Gabriele Pinna, ornitologo e ambientalista oristanese della prima ora, con cui ho esplorato il versante meridionale del Montiferru. Con lui avrei voluto passare più tempo sul monte di Seneghe, percorrendo sentieri dimenticati per perdermi nei suoi boschi di leccio o tra le sughere secolari. Ogni giorno, avrei voluto attendere l’arrivo della sera nei pascoli alle falde delle montagne sperando di udire il richiamo d'amore delle ultime galline prataiole del nostro paese e, magari, ammirarne le parate nuziali. Ma anche se a noi tre fotografi de "L'Altro Versante" piace lavorare con lentezza, da "slow photography", il tempo è sempre tiranno.

Anche stasera il maltempo non sembra darci tregua. Dopo una breve, promettente schiarita, è tornata la nebbia e il Montiferru, con la sua cima più alta, il Monte Urtigu è di nuovo inghiottito nel suo mistero. La speranza di riuscire a scattare qualche buona fotografia svanisce rapidamente. Mi consolano dei simpatici venturoni con il loro verso a trombetta e una coppia di corvi imperiali incuriositi da queste due rare figure umane nel paesaggio desolato. Lentamente ripieghiamo verso l'auto e verso le nostre dimore. Pazienza, dovrò tornare ancora sul Montiferru perché sono ansioso di vedere finalmente il sole baciare finalmente questo bizzoso vulcano addormentato!



Maurizio Biancarelli - L'immagine raccontata: gli alberi e il tempo - Macchia Cerasa, Monte Coscerno, Umbria



Percorrere in solitudine un bosco è sempre stata per me un’esperienza intima. Soprattutto quando gli elementi si scatenano e raffiche di vento impetuoso fanno ondeggiare rami e tronchi ammantati di nebbia. Allora è come se la foresta facesse sentire la sua voce profonda, un mugghiare, un lamento, a tratti un ringhio spaventoso, che sembra provenire dal passato remoto e ci ricorda che i nostri tempi e quelli della foresta sono distanti. Ma anche che possono ricongiungersi, entrare in contatto quando camminiamo tra gli alberi e ci inoltriamo in questo mondo di mezzo, sospeso, capace di trasportarci, come per incanto, dall’odierno al passato lontano.
Se ci soffermiamo a riflettere sul tempo degli alberi rimaniamo sconcertati: molte specie impiegano centinaia di anni a crescere, altre centinaia a vivere e ancora secoli a morire. Alcune, come le sequoie americane, i nostri stessi ulivi, i tassi superano indenni i millenni.
In una giornata di fine maggio il cielo prometteva pioggia, grandi nuvole avvolgevano la sommità del monte Coscerno in Valnerina e proprio queste condizioni speravo di trovare quando sono salito verso Macchia Cerasa o Bosco dei Cento Faggi come i locali la chiamano, una faggeta che ricopre i pendii ad alta quota di questa bella montagna solitaria. Sul suo margine esterno i venti furiosi delle tempeste hanno costretto i tronchi a crescere contorti e sinuosi, talvolta striscianti come enormi serpenti dall’aspetto inquietante: lisci, lucidi e di colore rossiccio quando sono bagnati dalla pioggia. 
Erano molti anni che non venivo quassù e ritrovare la faggeta, riconoscere alcuni degli alberi è stato come venire a trovare un vecchio, buon amico che non si vede da tanto tempo. Una sorta di tacito appuntamento, seguito da sollievo quando mi sono reso conto che non vi erano stati grossi cambiamenti, né alberi abbattuti.
Ho letto tutto quello che ho potuto sul bosco e sugli alberi e continuo a farlo volentieri ogni volta che mi si presenta l’occasione. Lo faccio per cercare di capire, di meglio penetrare il mistero del rapporto che con questo ambiente è possibile instaurare. Un rapporto le cui radici si spingono nel profondo e la cui essenza non è facile da chiarire.
Le foreste non sono un insieme di alberi, ma un mondo complesso, capace di stimolare, come pochi altri, la nostra mente. Da sempre sono stati essenziali per l’immaginazione, come dice Robert Macfarlane nel suo “Mondi selvaggi” e, oltre a suscitare in noi diversi modi di essere e di percepire, sanno stimolare gli spiriti in modo sempre diverso. Una foresta non è solo un organismo vivente che ospita tante forme di vita diverse, ma è anche depositaria del nostro immaginario collettivo. Abbiamo un bisogno assoluto, profondo di entrare in contatto con il bosco, ne va del nostro stesso benessere psicofisico.
L’uomo ha iniziato a tagliare e bruciare le foreste per ottenere legname e spazi aperti già nel Neolitico in Europa. Nel corso dei secoli, il rapporto con i boschi è stato altalenante, contraddittorio: sfruttamento delle risorse tout court e ammirazione e venerazione si sono alternati e intrecciati. Nel nostro tempo secolarizzato e pragmatico, lo sfruttamento non è certo terminato ed ha assunto le proporzioni che conosciamo.
Ogni volta che so di un albero o di una foresta abbattuta, penso con amarezza che, con loro, una parte del nostro essere è andata perduta. 


Luciano Gaudenzio - La storia di una cascata, Parco Nazionale dello Stelvio, Val Martello, Alto Adige


Perchè la storia di una cascata? Perchè da quando l'ho vista proprio come la state vedendo in questa prima immagine, così potente nel scendere verso valle, in un mondo di rocce nere, illuminata ad intermittenza da un sole capriccioso, sono rimasto a bocca aperta davanti alla sua selvaggia bellezza e allo stesso tempo, guardandomi attorno, ho capito il mondo mutevole e affascinante che stavo visitando.

Siamo nel Parco Nazionale dello Stelvio,nel cuore della Val Martello  in Alto Adige. Ho programmato 8 giorni alla scoperta del Parco e soprattutto del suo mondo di ghiacci e impressionanti morene. Al momento non sono stato molto fortunato. Temporali forti ed improvvisi, previsti con estrema precisione dai bollettini metereologici locali, mi hanno imposto una certa prudenza nell'affrontare i trekking impegnativi che avevo pianificato. Il territorio è esteso e ormai considero questa per l'Altro Versante alla stregua di un'esplorazione per le future missioni che farò sul territorio.
Partito di buon'ora arrivo velocemente al Rifugio Corsi e oltre  fino   al   superamento   del   gradino   di   valle. Un paesaggio quasi tibetano nell'estensione e nei verdi accesi che lo caratterizzano, se non fosse per le grigie distese moreniche che scendono dai ghiacciai  del Cevedale, della Vedretta Alta e del Gran Zebrù.
Siamo nel cuore dell'estate ed è proprio in questo periodo che la sofferenza dei grandi ghiacciai alpini è alla sua massima evidenza. Arrivando da un  lavoro appena concluso in Svizzera, fotografando i suoi principali ghiacciai, dall'Aletsch al Rodano, dall'Eiger al Titlis, anche qui in Italia trovo la penosa conferma di quanto il ghiaccio stia arretrando con torrenti e cascate impetuose visibili ovunque cada lo sguardo. Come nei giorni precedenti, il tempo inizia a cambiare e il cielo si oscura rapidamente di nuvole cariche di pioggia. Il mio obiettivo di giornata è quello di percorrere l'affascinante sentiero glaciologico che mi condurrà sino al Rifugio Martello e da qui verso le suggestive distese moreniche della Vedretta Alta, con  scorci paesaggistici incredibili su tutto il fronte del ghiacciaio del Cevedale e del Gran Zebrù.
Ed eccomi arrivato ai piedi  della cascata e all'inizio di questo racconto. Si forma con le acque di scioglimento del ghiacciaio della Vedretta Alta, dando origine all'impetuoso Rio Plima. La luce gioca con l'acqua che precipita tumultuosa nel vuoto sottostante dando origine ad arcobaleni mutevoli ed effimeri. Veloce  nella mia mente, si materializza il pensiero di raccontare questo paesaggio ponendo la cascata e le sue acque, come soggetto principale delle immagini che realizzerò.
Dovrò dunque risalire il roccione e cercare di raggiungere il punto in cui il torrente prende velocità e si trasforma. Dopo le prime immagini realizzate dal basso, riprendo il sentiero che presto diventa impegnativo. Guadagnando velocemente quota e lasciato sulla destra il rifugio Martello, arrivo ad un anfiteatro morenico che si snoda proprio ai bordi del ghiacciaio. La morena qui è quasi rosata. Le rocce presentano colori indescrivibili e non sarà certo una foto a restituire la verità della tavolozza cromatica che si può invece osservare nella realtà.

Il torrente formato dalle acque di scioglimento, dopo l'iniziale irruenza sembra scorrere placidamente sulla piana. Poi, quasi all'improvviso, scompare, trascinato verso il basso dalla forza di gravità. Decido di realizzare delle immagini cercando di avere sullo sfondo il ghiacciaio. Procedo un pò a tentoni, tra i roccioni scuri, ben levigati, alcuni molto bagnati e scivolosi.  Osservando con attenzione il punto in cui le acque cominciano la loro discesa mi accorgo che il vento soffia talmente forte che in alcuni momenti sembra sposti la cascata di metri, formando delle bizzarre nuvole di vapore acqueo. Cercando di aspettare il  momento opportuno in cui avviene questo spettacolare fenomeno, mi siedo paziente su una roccia e con un zoom-tele aspetto la combinazione giusta di luce, vento e spruzzi. Lo sappiamo, alle volte l'immagine perfetta e previsualizzata fa fatica a concretizzarsi, così dopo circa un'ora di attesa e di pochissimi scatti interessanti, riprendo il cammino,  in discesa, portandomi proprio dove l'acqua termina la sua folle corsa.




Sono passate quasi 4 ore dalla mia prima immagine della cascata, quella in cui il sole giocava con i suoi spruzzi. Nonostante il tempo passato i giochi di luce sull'acqua precipite sono ancora interessanti, forse ancor più.
Sono gli ultiimi scatti della giornata e sul sentiero del ritorno, già ripenso a quando potrò pianificare un'altra uscita in questo ambiente grandioso che mi ha letteralmente stregato.