Maurizio Biancarelli - L'immagine raccontata: gli alberi e il tempo - Macchia Cerasa, Monte Coscerno, Umbria



Percorrere in solitudine un bosco è sempre stata per me un’esperienza intima. Soprattutto quando gli elementi si scatenano e raffiche di vento impetuoso fanno ondeggiare rami e tronchi ammantati di nebbia. Allora è come se la foresta facesse sentire la sua voce profonda, un mugghiare, un lamento, a tratti un ringhio spaventoso, che sembra provenire dal passato remoto e ci ricorda che i nostri tempi e quelli della foresta sono distanti. Ma anche che possono ricongiungersi, entrare in contatto quando camminiamo tra gli alberi e ci inoltriamo in questo mondo di mezzo, sospeso, capace di trasportarci, come per incanto, dall’odierno al passato lontano.
Se ci soffermiamo a riflettere sul tempo degli alberi rimaniamo sconcertati: molte specie impiegano centinaia di anni a crescere, altre centinaia a vivere e ancora secoli a morire. Alcune, come le sequoie americane, i nostri stessi ulivi, i tassi superano indenni i millenni.
In una giornata di fine maggio il cielo prometteva pioggia, grandi nuvole avvolgevano la sommità del monte Coscerno in Valnerina e proprio queste condizioni speravo di trovare quando sono salito verso Macchia Cerasa o Bosco dei Cento Faggi come i locali la chiamano, una faggeta che ricopre i pendii ad alta quota di questa bella montagna solitaria. Sul suo margine esterno i venti furiosi delle tempeste hanno costretto i tronchi a crescere contorti e sinuosi, talvolta striscianti come enormi serpenti dall’aspetto inquietante: lisci, lucidi e di colore rossiccio quando sono bagnati dalla pioggia. 
Erano molti anni che non venivo quassù e ritrovare la faggeta, riconoscere alcuni degli alberi è stato come venire a trovare un vecchio, buon amico che non si vede da tanto tempo. Una sorta di tacito appuntamento, seguito da sollievo quando mi sono reso conto che non vi erano stati grossi cambiamenti, né alberi abbattuti.
Ho letto tutto quello che ho potuto sul bosco e sugli alberi e continuo a farlo volentieri ogni volta che mi si presenta l’occasione. Lo faccio per cercare di capire, di meglio penetrare il mistero del rapporto che con questo ambiente è possibile instaurare. Un rapporto le cui radici si spingono nel profondo e la cui essenza non è facile da chiarire.
Le foreste non sono un insieme di alberi, ma un mondo complesso, capace di stimolare, come pochi altri, la nostra mente. Da sempre sono stati essenziali per l’immaginazione, come dice Robert Macfarlane nel suo “Mondi selvaggi” e, oltre a suscitare in noi diversi modi di essere e di percepire, sanno stimolare gli spiriti in modo sempre diverso. Una foresta non è solo un organismo vivente che ospita tante forme di vita diverse, ma è anche depositaria del nostro immaginario collettivo. Abbiamo un bisogno assoluto, profondo di entrare in contatto con il bosco, ne va del nostro stesso benessere psicofisico.
L’uomo ha iniziato a tagliare e bruciare le foreste per ottenere legname e spazi aperti già nel Neolitico in Europa. Nel corso dei secoli, il rapporto con i boschi è stato altalenante, contraddittorio: sfruttamento delle risorse tout court e ammirazione e venerazione si sono alternati e intrecciati. Nel nostro tempo secolarizzato e pragmatico, lo sfruttamento non è certo terminato ed ha assunto le proporzioni che conosciamo.
Ogni volta che so di un albero o di una foresta abbattuta, penso con amarezza che, con loro, una parte del nostro essere è andata perduta. 


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