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Sempre alla ricerca di posti nuovi da scoprire e far conoscere, la Val di Gares è stata una piacevole ed inattesa sorpresa.
Ci troviamo in comune di Canale d'Agordo, tra Falcade e Cencenighe, a pochi chilometri da uno dei comprensori sciistici più importanti e frequentati delle Dolomiti, il Passo San Pellegrino.
Sono sincero, arrivo qui per caso.
La Val di Gares è infatti conosciuta soprattutto tra gli appassionati di sci di fondo e proprio questo è il motivo che mi ha condotto qui: accompagno mio figlio ad una due giorni di gare che si tengono proprio in questa località.
Come gran parte degli ultimi inverni, quest anno la neve si è fatta aspettare a lungo ed è comparsa in modo tardivo e timido solo a metà febbraio, dopo un lungo periodo di freddo intenso e meravigliose giornate senza l'ombra di precipitazioni.

La Val di Gares è una valle fredda e scura, considerato che durante tutto l'anno e in particolare in questo periodo, qui il sole compare per poche ore al giorno.
Lungo la stretta strada che conduce verso la fine della vallata dove sono tracciate le piste da fondo, siamo letteralmente rapiti dalle splendide condizioni atmosferiche che ci accolgono.
Ha nevicato abbondantemente tutta la notte ed ora raggi di luce si insinuano tra le forcelle delle severe cime che circondano la valle, il gruppo delle Pale di San Martino e quello delle Pale di San Lucano.
Nuvole basse in continua trasformazione avvolgono la foresta che sembra quasi respirare.
Il mio sguardo passa frenetico da una parte all'altra della vallata.
A sinistra, il cielo si colora di un azzurro plumbeo intenso, mentre a destra, alcuni costoni rocciosi di pura dolomia, mi ricordano alcuni scorci del Parco Nazionale di Yosemite, visti e studiati negli scatti del mitico fotografo americano Ansel Adams.
Passo la successiva mezz'ora nel cercare di ritrarre questa piccola e selvaggia valle dolomitica, sapendo già in cuor mio che le emozioni e le suggestioni provate dal vivo saranno difficilmente comunicabili.




Colori d'autunno - San Martino del Carso
Erano mesi che pensavo a questa missione sul Carso.
Ho ricordi bellissimi di questo territorio che, nel periodo autunnale, offre scorci di rara bellezza, legati alle splendide sfumature di rosso, giallo, arancione del Scotano (Cotinus coggygria) chiamato anche albero della nebbia per via degli eleganti pennacchi bianchi che, come sbuffi di vapore, fuoriescono dal cespuglio.
Una varietà e eleganza cromatica rara. Senz'altro uno dei più suggestivi foliage in Italia e nel mondo.
Geograficamente parlando, ci troviamo in Friuli Venezia Giulia, tra Gorizia e Trieste.
Il mare è vicino pochi chilometri, tanto più che il Carso offre suggestivi scorci sul Golfo di Trieste e sulla vicina Laguna di Venezia.
Pochi sanno però che il clima qui è continentale, tipico di una zona di media montagna, con specie vegetali e animali caratteristiche di questa fascia altitudinale.
È facile, camminando lungo uno dei tanti sentieri che lo attraversano, essere sorpresi dal canto in volo di un picchio nero che si sposta da una macchia di pini neri all'altra.
Il Carso è una continua sorpresa, anche per chi, come me, lo frequenta da tantissimi anni.
Per questa particolare "montagna", volevo scoprire un posto nuovo, rispetto a quelli che già conoscevo, un luogo che in sè potesse racchiudere, la bellezza del paesaggio, la varietà degli aspetti vegetazionali, il ricordo del passato.
Un passato che qui riemerge quasi ovunque. E in particolare nelle vecchie trincee di guerra,  sapientemente riportate alla luce e restaurate da centinaia di volontari e appassionati e dalle Pubbliche amministrazioni che, almeno per una volta, hanno intuito l'importanza della memoria unita alla valenza turistica e naturalistica di questi luoghi.
Così, dopo un paio di giorni di sopralluoghi, la mia scelta è caduta su una delle cime più combattute durante la prima guerra mondiale, il Monte San Michele, quasi 300 mt sul livello del mare.
Da qui il paesaggio è incantevole, con scorci fantastici sul Mare Adriatico e distese quasi infinite di alberi della nebbia.
Con una tale abbondanza di soggetti fotografici realizzare delle immagini non banali è sempre molto difficile, ma  anche dietro ad un'apparente confusione molte volte si cela un ordine quasi perfetto.
È ormai sera e gli ultimi raggi di luce filtrano tra i rami di un pino nero illuminando dolcemente le foglie variopinte dei cespugli che sto inquadrando.
Sul sentiero che mi riporta verso la macchina ritornano alla mente i versi di Ungaretti, che proprio a questa zona, ha dedicato una struggente poesia.

San Martino del Carso

Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
E’ il mio cuore
Il paese più straziato


 

Da ieri il vento spira forte da sud-ovest e spinge scie di nuvole soffici come zucchero filato dalle vette più alte verso  quote medie, là dove il fitto manto di boschi si interrompe per lasciare spazio a verdi radure rigogliose, frequentate da pochi animali domestici e da una ricca popolazione di ungulati: caprioli, cinghiali e qualche cervo. 
Decido di fotografare qui al tramonto, sperando che le nuvole vengano colorate da una bella luce calda. 
Il crinale, d’altra parte, è avvolto da una fitta coltre grigia e non lascia speranze per oggi. 
Nel tardo pomeriggio, in compagnia delle guide, ci dirigiamo speranzosi verso il luogo prescelto, ma il tempo sta cambiando, il vento, teso e forte fino a poco tempo prima, cala d’intensità: mentre ci avviciniamo, delle belle nuvole che strisciavano sopra i fianchi morbidi della montagna non v’è più traccia, il sole prevale e solo grandi cumuli bianchi restano sospesi, alti e immobili, nel cielo. Le mie previsioni si sono rivelate sbagliate, non sembra questo il posto giusto stasera.
Ma ormai è fatta, non c’è più tempo per cambiare e allora con i forestali Giulio e Paolo avanziamo sul sentiero che ci porterà verso un bel poggio erboso, un luogo panoramico, da dove la vista spazia sul paesaggio ampio, avvolto dalla luce del tardo pomeriggio. 
Pazienza per le nuvole sparite, speriamo comunque in un bel tramonto e poi ci sono pur sempre gli animali. Mentre camminiamo sorprendiamo un gruppo di una trentina di cinghiali, femmine adulte con i piccoli. Pascolavano nell’erba e sono fuggiti rapidi verso l’intrico della vegetazione al nostro avanzare, con i piccoli che si intravvedono appena correre saltellando, affannati, tra le alte erbe mentre cercano di seguire da vicino gli adulti. 
“Stasera spero di vedere un cervo” dice Giulio ed io replico che mi sarei accontentato di tre lupi, così, tanto per dire. 
L’aria è mite, calma ed è bello sedere e godersi tranquilli l’attesa dopo giorni e giorni di alzatacce e lunghe scarpinate su pendii ripidi. Per prudenza e abitudine parliamo a bassa voce, poi ognuno trova un posto preferito dove sedersi e aspettare. Siamo a poca distanza l’uno dall’altro, ho montato il teleobiettivo e lo tengo pronto, penso tra me e me che un capriolo ambientato in quel paesaggio non sarebbe niente male. Rilassato, aspetto e cerco di immaginare come apparirebbe  un capriolo se sbucasse nel posto giusto. 
Il tempo scorre e non succede niente di particolare, ogni tanto sento le voci basse di Giulio e Paolo che conversano, ma non posso vederli. 
Sono le otto passate quando, all’improvviso, Giulio striscia nell’erba alta verso di me e, eccitato, sibila a voce bassa e controllata: c’è un lupo! Indica il versante opposto e scompare. Mi alzo seguendo l’istinto, ma penso che stia scherzando, non ci penso proprio che possa essere accaduto davvero. 
I due lupi sono invece proprio lì, al centro della grande radura, uno ci guarda. Incredibile. 
Sono a duecento metri da noi, non certo vicinissimi per il mio corto tele, ma perfettamente visibili nella luce calda e limpida. Scatto istintivamente mentre i due predatori si spostano, si fermano, ci guardano di nuovo e poi, dopo attimi interminabili, corrono decisi al riparo della faggeta e scompaiono alla vista. 
L’eccitazione è quella delle grandi occasioni: ancora increduli, ci scambiamo sorrisi e sguardi soddisfatti mentre commentiamo l’accaduto. Paolo li ha visti per la prima volta, per me non è certo così, ma questo incontro durante una missione per L’Altroversante assume un valore particolare, lo considero un segnale positivo e un buon auspicio. 
E poi oggi è il 27 giugno, e domani il giorno del mio compleanno. Non potevo certo aspettarmi regalo migliore.




La sveglia come al solito squilla presto, troppo presto. Un veloce caffè e si parte, ancora mezzi addormentati. Per una volta, tutti e tre insieme. Io, Luciano e Maurizio ci troviamo a camminare in fila indiana lungo la strada di montagna. Ad ogni tornante questa sembra diventare sempre più ripida e il ritmo affannato del respiro diventa quasi ipnotico, facendoci chiudere ognuno in sé stesso. Dopo due ore di passi ritmati, affanno e silenzio, siamo sull'altipiano. È ancora buio ma il cielo sereno e la poca nebbia fanno presagire un'alba cristallina e dalla luce piatta. Peccato, nonostante il grande sforzo non c'è proprio quell'atmosfera che cercavamo per questo angolo poco noto delle Dolomiti!

Il freddo è pungente e a terra un sottile strato di brina ricopre tutto. Aspettiamo la prima luce per scattare qualche immagine e io sospiro immaginando la piana davanti ai nostri occhi ricoperta di nebbia o neve: sarebbe stata una gran foto! Ma non ci si perde d'animo e tutti iniziamo a inquadrare il paesaggio davvero particolare di questa piana "appenninica" sbattuta nel cuore delle Alpi. Quando il sole sorge, il tepore dei suoi raggi è piacevole, ma la luce, ancora una volta, è piuttosto ovvia e poco attraente.

Io e Maurizio abbiamo un lungo viaggio che ci aspetta, per rientrare nelle rispettive regioni del Centro Italia, e iniziamo a pensare di mettere via l'attrezzatura e scendere all'auto. Eppure, insoddisfatti, continuiamo a scandire il paesaggio per cercare un'inquadratura che dia giustizia al luogo. E così, affetto per un attimo da "fotofobia", inizio a guardare con attenzione nelle zone in ombra, lontano dalla luce. Così mi accorgo di questa zona di doline carsiche che si estende alla base di un pendio montano. La luce rifratta e la brina che permane danno un tono azzurro alla scena, mentre la lingua di un ghiaione ha un colore più caldo. Inizio a scattare, stringendo l'inquadratura con l'obbiettivo più lungo che ho con me e le immagini iniziano a piacermi. Faccio appena in tempo a trovare la composizione giusta che il sole arriva anche qui e riempie il mio obbiettivo di luce e riflessi, facendo scomparire la fredda magia.





Luglio. Non c’è niente da fare, l’estate è in fondo alla mia lista delle stagioni. Amo l’inverno, ho dedicato un libro intero all’argomento, ma non è per presa di posizione che trovo l’estate poco interessante. Ci sono dei dati oggettivi, dei motivi incontestabili. Quando trovate cieli costantemente sereni, piatti, afa e foschia, tutti elementi che non aiutano certo a scattare foto mozzafiato, direi nemmeno decenti? 
E poi il caldo e la fatica della salita, i vestiti zuppi di sudore, che vanno subito cambiati quando arrivi in cima, per poi ritrovarseli  dopo poco esattamente come prima.
Ma l’Altroversante è un progetto ambizioso, le missioni in programma sono tante, e così è inevitabile che qualcuna debba essere fatta in questa stagione. Cerco di consolarmi così mentre guardo il cielo sereno, il velo denso di foschie che nasconde i profili dei monti verso la pianura padana dall’alto del crinale dell’Appennino Tosco-Emiliano, sul quale cammino in cerca di ispirazione. 
Ma la frustrazione strisciante non si placa.  La sensazione di trovarsi davanti ad un bel paesaggio di verdi pendii ripidi ricoperti di incredibili distese di mirtilli, ammantati da boschi rigogliosi, punteggiati da una varietà di laghi e laghetti lasciati in eredità da antichi ghiacciai e trovare il tutto sotto un cielo senza una nuvola, con una luce sempre troppo dura, eccessiva, sta facendomi perdere la fiducia. Sento la voglia di sfogarmi un po' e parlo di questo  con Roberto e Giuseppe mentre camminiamo sul crinale del Monte Prado. Sono le mie brave guide e assentono, ma senza troppa convinzione, si vede che godono del vento e della “splendida” giornata soleggiata, come  biasimarli?
Siamo arrivati in netto anticipo sul tramonto e così mentre loro si rilassano, lasciato lo zaino a terra, faccio un giro esplorativo per trovare l’angolo migliore per la sera. Qualche nuvoletta sparuta si vede sopra al profilo del Cusna, chissà che non regga fino al calare del sole e si tinga di rosa. 
Le ore passano, si fa sera e, inaspettata,  arriva la sorpresa:  il “marino”, così lo chiamano quassù, un vento da sud-sud-ovest aumenta d’intensità e nuvole sottili cominciano a formarsi sotto i nostri occhi sospinte a gran velocità lungo i pendii. Sono esili, sparute, poco più che sbuffi di vapore all’inizio, ma poi mano a mano che passa il tempo aumentano di volume, fino a diventare nebbia intensa che tutto copre, annullando il paesaggio. A questo punto il mio umore cambia, repentino, come il tempo. Siamo in prossimità del tramonto e, se la nebbia si attenuasse, le possibilità di una vera foto da Altroversante si farebbero concrete. Ora sono in attesa trepida e l’adrenalina comincia a scorrere quando vedo che la nebbia, a tratti, si dirada davvero. Il vento è forte, le raffiche improvvise e anche se il treppiede è ben piazzato, non si sa mai, meglio cercare di stabilizzarlo ancora di più. Chiedo a Roberto di aiutarmi a tenerlo fermo con le mani, e’ freddo e gli  presto volentieri i miei guanti. Il suo aiuto è prezioso e generoso, apprezzo assai la sua collaborazione. Con la coda dell’occhio mi accorgo che alle nostre spalle Giuseppe, sorridente, sta iniziando a scattare col telefonino.
Nel momento cruciale si creano varchi nella nebbia, il paesaggio appare e scompare, mentre il flusso delle nuvole cambia, mutevole come non mai. Ora appare nitida una cima, ora un’altra. Tutto è giallo e rosso, ogni foto diversa, mentre scatto veloce e i tempi lunghi d’esposizione sfumano le nuvole in movimento. Scatto e sono eccitato, controllo in fretta il monitor, scambio battute a voce alta con Roberto, anche lui coinvolto dallo spettacolo e dal mio entusiasmo, e mi chiedo, in gran segreto, se sia il caso di cambiare opinione sull’estate.

Quando sono partito per questa missione pensavo di poter fare a meno di fotografare i casolari e le centinaia di stalle e malghe che avevo visto nelle immagini trovate in rete, segno intangibile della preziosa secolare attività dell'uomo e caratterizzanti questo territori;  dopo le prime due giornate sul campo con intense nevicate e quasi sempre circondati dalle nuvole e da un forte vento, alla sera, riguardando le immagini, mi sono accorto che anche non volendole far comparire, cercando quasi sempre di escluderle dalle mie immagini, in tante di esse, questi casolari comparivano, quasi mi volessero parlare di qualcosa di importante, quasi a dire, siamo qui da centinaia di anni!


Riflettendoci sopra sono arrivato alla conclusione che questo luogo non può essere raccontato senza le costruzioni che lo contraddistinguono, sono talmente una parte integrante del paesaggio che non documentarli finirebbe per stravolgere un qualsiasi racconto per immagini.

E se anche il lupo, tornato qui da pochi anni e presente ora con due branchi vitali, ci passa tranquillamente accanto ogni giorno e alle volte trova riparo dalle burrasche di neve che spesso si abbattono su queste valli e montagne, davvero dovremmo fare un'attenta considerazione sul significato di "paesaggio naturale".

La Marmolada e il suo ghiacciaio  - Luglio 2015

"....Quest'anno la Marmolada è più debole del solito......vedete quelle enormi placche che spiccano, di ghiaccio vivo, quasi azzurro? non si dovrebbero vedere, la neve dovrebbe ammantarle anche in questa stagione..."

Accompagnato da queste parole e dal vento che soffia forte dalla vallata sottostante alla catena del Padon, volgo le spalle al gestore del Rifugio Viel del Pan e cerco di trovare qualche composizione interessante dell'imponente massiccio che ho dinanzi.
Il rifugio è un meraviglioso balcone panoramico sul ghiacciaio e si raggiunge in poco tempo e dislivello dal Passo Pordoi. Sono assieme a Maurizio Biancarelli e al fotografo trentino Daniele Lira che ci ha accompagnato in quasi tutte le missioni realizzate in Trentino.
Un giorno sostanzialmente di riposo, questo al rifugio, reduci da lunghi e faticosi trekking nel vicino gruppo del Catinaccio. Giornate più impegnative ci aspetteranno.
Questi momenti di contemplazione e riflessione sono impagabili: ci avvicinano alla Natura e alle forze che la dominano in modo lento, dandoci il tempo di pensare, ammirare, preoccuparci.
I ghiacciai stanno soffrendo, sono vistosamente ammalati, alcuni stanno scomparendo proprio sotto i nostri occhi. Come quello vicino della Fradusta, nel Gruppo delle Pale di San Martino. I glaciologi parlano sommessamente della sua ultima estate.
Non solo animali, ma anche ghiacciai, in estinzione. Purtroppo non sarà l'ultimo. Il temuto innalzamento del clima dovuto all'irresponsabile comportamento umano sta proprio causando questi devastanti effetti e poco importa ci siano gli ottimisti a dichiarare che le fasi di recessione dei ghiacci da sempre si ripetono e che presto ci sarà un'altra piccola era glaciale.
Nonostante le convinzioni opposte e discordanti, pessimiste e no, i dubbi rimangono.
Come fotografi, come semplici osservatori della Natura, non ci rimane altro che documentare, testimoniare ciò che fu e che forse in futuro, non riusciremo più a contemplare.


Sembra quasi un giocattolo di gomma o una caramella alla liquirizia… in realtà la piccola salamandra alpina (Salamandra atra) è uno dei gioielli più preziosi della nostra fauna di montagna. 
Come tutte le altre specie di anfibi, anche questa salamandra ha delle necessità ecologiche ben definite che ne limitano la distribuzione sull'arco alpino. Non si trova dappertutto, ma localmente può essere anche molto abbondante. Ghiaioni o sfasciumi di rocce, umidità, stillicidio e temperature fresche, sempre in ambienti montani e lontani dalla copertura arborea: questi gli ingredienti per la presenza di questo animale.

Durante la mia recente missione nel Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi, in Veneto, durante un pomeriggio piovoso e molto umido, poco adatto a fotografare paesaggi, sono stato accompagnato dagli amici Bruno Boz (con famiglia) e Giacomo De Donà per cercare di incontrare o, meglio, per dare un appuntamento a questo animale meraviglioso. Abbiamo risalito una valle promettente, camminando parecchio di più di quanto previsto. Ben presto, tra maglia e schienale dello zaino, eravamo un bagno di sudore. Nonostante il desiderio di trovarla fosse grande, iniziavamo a chiederci se ne valesse la pena. Il sentiero stretto si snodava nel bosco con continui saliscendi e curve. Non sembrava avere fine: era come camminare sulla pelle di un serpente. La pioggia aveva gonfiato il fiume e invitato allo scoperto le salamandre pezzate, cugine pagliaccio della piccola atra. L'abbondanza di queste ultime una sorpresa per un "appenninico" come me. Dalle mie parti, rari incontri con le salamandre fanno ahimè sempre più notizia...

Arrivati nella zona in cui concentrare le ricerche, ci siamo sparpagliati sul versante più umido e fresco. Dopo una ventina di minuti di vane ricerche, il morale era già sceso e iniziavo a sentire tutta la stanchezza dei giorni precedenti. Più per puntiglio che altro, abbiamo deciso di proseguire ancora lungo il sentiero per qualche centinaio di metri.

Ecco che Giacomo, insieme al piccolo e attentissimo Matteo Boz, ci fanno cenno di raggiungerli: ne avevano trovata una! Montiamo le attrezzature per scattare qualche immagine mentre il cielo promette un altro scroscio di pioggia. Io provo a controllare più avanti ancora e, sotto una felce, belle in mostra ne trovo altre due. Iniziamo a guardarci intorno e ne contiamo a decine. Immobili o attive, sopra una pietra o nascoste dalla vegetazione. Una vera festa anfibia!

Difficile esporre per questi animali nero-inchiostro sulle rocce riflettenti. Provo di tutto: grandangolare spinto e macro. Alla fine, la foto che mi convince di più è questa: l'animale nel suo contesto di rocce e acqua. Elegantissimo. 

Nel frattempo le nuvole si sono spostate e il temporale si allontana. L'aria si fa più fresca e inizia a soffiare il vento. Le rocce si stanno asciugando e, come per magia, dove prima erano decine di salamandre, ora se ne contano giusto un paio. 
Questa è la vera magia della natura, quando concede i propri doni. E io sono felice di quel pomeriggio, perché l’Altro Versante non è solo un viaggio tra paesaggi mozzafiato e luci incredibili, ma anche un omaggio al piacere della ricerca e all'emozione della scoperta.


Geranium argenteum

Il Geranio argentino


Mi ha sempre affascinato la ricerca di specie botaniche montane. Spesso minute, in apparenza fragili e delicate, vivono in condizioni estreme, in luoghi difficili e inospitali: in mezzo alle pietraie, nelle fessure delle rocce, nelle forre umide, nelle vallette nivali, depressioni dove la neve resiste per gran parte dell’anno. 
La loro capacità di adattamento a freddo, vento, siccità ha del proverbiale: riescono a cavarsela e prosperare là dove le piante di valle fallirebbero miseramente. 
Per esempio riescono ad attivare la fotosintesi a temperature molto basse, di poco superiori allo zero, hanno apparati radicali molto sviluppati che si infiltrano in profondità attraverso rocce o ghiaioni fino a raggiungere il terreno, rivestono le foglie di una fitta peluria per limitare la traspirazione e resistere alla siccità estiva e alle abbondanti radiazioni ultraviolette delle alte quote o acquisiscono una forma a cuscinetto, per meglio resistere al vento e al peso della neve.
I loro fiori sono spesso grandi e dai colori intensi: gli insetti impollinatori sono scarsi lassù e non si può rischiare di passare inosservati.
Può capitare che in montagna la breve stagione vegetativa sia compromessa dal cattivo tempo, per questo la maggior parte delle piante di altitudine è specie perenne. Se un anno va male, pazienza, la pianta non fiorisce o non fruttifica ma non muore ed è pronta a riprovare l’anno successivo.
Questi straordinari esseri viventi raccontano di sé: non si muovono e non gridano, ma le loro storie mute non sono per questo meno intriganti e ci riconducono a tempi e climi assai lontani. 
Il geranio argentino, Geranium argenteum, è una vera rarità per l’Appennino centrale, risulta infatti presente solo sui Monti Sibillini, dove era stato rinvenuto per la prima volta nell’ottocento dal botanico, medico e naturalista Bertoloni e poi non più trovato per lunghissimo tempo. Sembrava estinto, ma negli anni passati è stato riscoperto e ora questa piccola, elegante pianta è tornata a impreziosire la flora delle montagne della Sibilla.
In Italia è rara dovunque anche se presente sporadicamente in Carnia, nel Bellunese, nel Bresciano, nelle Apuane e in alcune cime dell’Appennino settentrionale. 
È probabilmente una specie che aveva più vasta diffusione prima dell’ultima glaciazione, visto che attualmente vive solo nelle catene marginali delle Alpi e in poche aree dell’Appennino che non furono mai ricoperte dai ghiacciai del Quaternario.




La nostra missione è fotografare luoghi poco conosciuti per valorizzarli. Fotografare luoghi celeberrimi, invece, perché? Noi de L'Altro Versante ci siamo chiesti più volte se per il nostro progetto avesse un senso fotografare nuovamente luoghi considerati come "icone" della montagna italiana. Ogni qual volta ne abbiamo discusso, immancabilmente il nome delle Tre Cime di Lavaredo veniva preso ad esempio. Alla fine ci siamo convinti che anche queste celebrità andassero in qualche modo riscoperte, ma come? Sotto una luce nuova? Cercando inquadrature particolari? In condizioni meteorologiche diverse?

Conosco la zona delle Tre Cime da tanto, tantissimo tempo. Ancora prima di essere un fotografo, infatti, la frequentavo come semplice appassionato di natura e trekker. Quante salite, quante notti passate nei diversi rifugi della zona: dal Comici al Carducci, dal Pian di Cengia al più conosciuto Locatelli! Poi, sono arrivate le prime immagini. Le Tre Cime illuminate al tramonto, un immancabile classico della fotografia di paesaggio. Sembra quasi che quei tre "fratelloni" di dolomia siano emersi in una posizione geografica e con un'inclinazione tali da essere baciati perfettamente dagli ultimi raggi del sole. Per curiosità, sono tornato a sfogliare i plasticoni dove sono archiviate le mie vecchie diapositive e ho contato almeno 200 immagini, che raccontano dei tramonti infuocati e delle cime perfettamente illuminate, contornate da nuvolette rosa, che ho potuto ammirare negli anni.
Torno sempre volentieri da queste parti, possibilmente fuori stagione. Maggio e giugno sono mesi bellissimi per visitarle: sui ghiaioni ci sono ancora i segni bianchi dell'inverno.
Fotografare questo affascinante luogo in modo diverso è però molto difficile. l primi due tentativi, infatti, sono falliti. Luce perfetta il primo giorno: immagini tuttavia uguali a quelle che compaiono nei magneti da frigorifero che si vedono giù, al Lago di Misurina. Il secondo tentativo è stato durante una giornata che promette bene, ovvero una di quelle in cui la variabilità del tempo lascia auspicare luci inattese. Ho atteso la fine di un temporale, con fulmini a ripetizione sul Lago di Misurina. Poi mi sono incamminato verso il Sasso di Sesto e ancora oltre, in una zona caratterizzata dai resti della Grande Guerra. Aspetto, aspetto, ancora e ancora, finché il cielo così promettente si è tinto di un grigio senza speranza.

La terza volta, invece, sono tornato in compagnia di un caro amico, la giornata era veramente splendida. Poi, come succede tantissime volte in montagna, all'improvviso densi nuvoloni neri si sono affacciati all'orizzonte. Provenivano dalla Val Pusteria, da Dobbiaco. Abbiamo deciso comunque di proseguire verso il punto di ripresa concordato. Nel cielo le nuvole correvano velocissime. Si alternavano quelle cariche di pioggia, di un plumbeo intenso, a quelle dall'aspetto più innocuo, bianche e cremose. Anche la luce sembrava impazzire: raggi di sole si insinuavano tra le nubi per colorare la dolomia. Non sapevamo più dove guardare né cosa inquadrare. La situazione era davvero interessante, ma i lampi dei fulmini, attorno a noi e le prime gocce di pioggia ci preoccupavano non poco. Il cielo ha cominciato a tingersi di giallo con venature magenta. Cercavamo di proteggere l'attrezzatura dalle raffiche di pioggia portate dal vento. Poi, tutto a un tratto, il cielo vivido di luce, si è spento. Il temporale si è spostato verso i Cadini di Misurina.

Forse nemmeno questa è ancora l'immagine che ho in mente per celebrare queste magnifiche montagne. Ci tornerò sicuramente per realizzarla, anche se forse, la foto perfetta non arriverà mai. Perché anche le montagne più famose d'Italia indossano ogni giorno una veste nuova e unica, che invita a riscoprirle ancora una volta.









Si dice che nella fotografia naturalistica, il tempismo sia tutto. Cogliere l'attimo saliente di un'azione, il momento giusto dell'anno per documentare un fenomeno biologico particolare o la luce più suggestiva per rendere magica una composizione... Non c'è niente di più vero, tutti gli sforzi per cercare e inquadrare un soggetto diventano vani, infatti, se non si sceglie la situazione adatta per valorizzare l'immagine.

Questo monito mi tornato in mente pochi giorni fa durante la mia ultima missione nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi in Veneto. Tra i siti selezionati per l'Altro Versante, ho visitato la bellissima località dei "Piani Eterni" tra Belluno e Feltre. Questo strano altopiano, quasi un cratere circondato da alte montagne, è un posto a sé. Un po' Canada, un po' Appennino, è un mare d'erba tra i mughi e gli affioramenti rocciosi. Come tutti i luoghi che si sviluppano in piano non è un sito facile da fotografare e, inoltre, un nome così importante, "Piani Eterni" richiede un minimo di attenzione in più per dare giustizia al "senso del luogo".

Dopo una lunga camminata per arrivare alla malga che ci avrebbe ospitato per tre giorni, mi sono messo ad esplorare i dintorni. Ero stato colpito dai campi carreggiati e dai massi erratici, testimoni silenziosi di un passato glaciale e turbolento, che caratterizzavano un lato dei Piani. Avevo provato varie inquadrature, ma quella che mi convinceva di più vedeva le rocce in primo piano condurre lo sguardo verso un grosso masso lasciato lì dalla forza dei ghiacciai. L'immagine non era male, ma l'afa di quella serata non aveva permesso un tramonto avvincente e così mi ero dovuto accontentare di una fotografia piuttosto standard, dai toni abbastanza piatti.

Due giorni dopo, all'alba, che a giugno, diventa una cosa tosta da gestire e vuol dire alzarsi prima delle quattro del mattino, la bruma riempiva la conca erbosa. Ancora prima di prendere il caffè sono uscito e ho ammirato una mezzaluna che brillava sopra i colori cilestrini di quello scenario mattutino.
È stato un attimo. Senza dire nulla agli altri, ho preso fotocamera, grandangolo e treppiedi e sono corso nella nebbia a ricercare quello stesso masso e un'inquadratura simile a quella scattata il primo giorno.

Stavolta le montagne erano di un blu intenso e i confini meno definiti e scontati. Mi sono concesso qualche scatto e via, poiché mi attendeva una lunga esplorazione su un'altra montagna. Non c'era stato molto tempo per sperimentare, ma almeno avevo messo da parte una fotografia che portasse in sé un minimo dell'"eternità" di quel posto così particolare.