Bruno D'Amicis - Parco Nazionale della Majella, Abruzzo - Alla ricerca della tundra appenninica, tra estate mediterranea ed era glaciale - Parte Prima
A
quota duemila, camminando piano su una cresta che sembra la schiena
di un leviatano. Il cielo sgombro di nubi, di un azzurro vivido e
bidimensionale; una brezza leggera, che però scaccia via le mosche,
fa ballare ranuncoli e genziane e solleva il polline dai pini mughi.
Di fronte, altera e ineluttabile, la Montagna Madre, bianca di neve e
calcare: la Majella, che incombe su di noi, seppure così lontana.
Accompagnato
da mio fratello Matteo, l’unico che si è prestato generosamente al
faticoso compito di aiutarmi nel trasporto di equipaggiamento, acqua
e vettovaglie per le quasi 72 ore da passare in alta montagna, ho
comunque più di venticinque chili sulle spalle e lo zaino, che
dapprima cigola, ben stretto sui fianchi, ora invece è sceso un po’,
aggrappandosi alla schiena come una scimmia, spezzandomi il fiato.

“Mi
fermo cinque minuti a scattare!” urlo a mio fratello, che decide di
procedere a passo lento. “Che ipocrita...”, penso di me quando i
minuti diventano un’ora. Solo quando mi accorgo di avere il sole a
picco sulla testa - mezzogiorno, decido che le decine di foto
scattate ai piccoli fiori sono abbastanza. Salgo a fatica le poche
centinaia di metri (inclusi due passaggi delicati su dei nevai) che
mi dividono dal bivacco Fusco, sotto il sole, ma godendomi i capolini
di tanti fiori che qua e là stanno sbocciando. Proteggendo ben due
terzi dell'intera flora italiana e un numero pazzesco di endemismi,
il massiccio della Majella è infatti una vera “Mecca” per gli
appassionati di flora selvatica.
Mio
fratello è lì che mi aspetta paziente, sull’uscio del piccolo
edificio giallo e spartano, senza aver ancora toccato cibo. Mi tolgo
lo zaino, cambio la maglietta madida e iniziamo a preparare un pasto
semplice: pane, olio e pomodoro. Un tocchettino di formaggio pecorino
a testa e un sorso di rosso, che ci siamo concessi come unico lusso,
travasando una bottiglia di vetro in una di plastica da mezzolitro.
Nuvolette bianche, l’Anfiteatro delle Murelle, un’aquila reale
lontana e due camosci su una cresta sono il nostro digestivo. Viste
le tante ore che ci separano ancora dal tramonto e dall’attività
fotografica, decidiamo di riposare un po’ nel bivacco. L’allarme
suona alle 16.30 e ci troviamo di fronte ad un’altra montagna:
l’arrivo improvviso di un vento freddo e forte, che ha portato con
sè delle dense nuvole grigie. Addio sole e estate. Pantaloni lunghi,
maglia di pile e giacca a vento: le due-tre ore che ancora ci
separano da Monte Amaro, la vetta della Majella, e dal bivacco Pelino
costruito sulla sua cima non saranno facili. E infatti, neanche
arrivati sul pianoro sommitale del Focalone, il vento fortissimo ci
fa desistere dall’impresa.



Anche dopo il tramonto, il vento non cessa; le nuvole hanno coperto il massiccio del Gran Sasso, ma non le spiagge del Mare Adriatico, che sembrano distare qualche migliaio di chilometri da quel freddo incredibile. Sulla mia testa, decine di neri gracchi corallini e alpini volano, maestri nel giocare con le correnti d’aria. Davanti a me una pista di lupo che non avevo notato all'andata consacra una lingua di neve. Rintontito dalle raffiche, riscendo al bivacco, dove scopro che io e Matteo non saremo soli quella notte, ma dovremo condividere i pochi metri quadri a disposizione con tre simpatici e loquaci ragazzoni di Pescara. Ci presentiamo sull’uscio del bivacco che è buio. Accendiamo qualche candela e le torce frontali e ci chiudiamo dentro, con il vento che ulula fuori. Tiriamo fuori le rispettive bottiglie di rosso e facciamo un brindisi, iniziando quella che sarà una lunga notte...