A
quota duemila, camminando piano su una cresta che sembra la schiena
di un leviatano. Il cielo sgombro di nubi, di un azzurro vivido e
bidimensionale; una brezza leggera, che però scaccia via le mosche,
fa ballare ranuncoli e genziane e solleva il polline dai pini mughi.
Di fronte, altera e ineluttabile, la Montagna Madre, bianca di neve e
calcare: la Majella, che incombe su di noi, seppure così lontana.
Accompagnato
da mio fratello Matteo, l’unico che si è prestato generosamente al
faticoso compito di aiutarmi nel trasporto di equipaggiamento, acqua
e vettovaglie per le quasi 72 ore da passare in alta montagna, ho
comunque più di venticinque chili sulle spalle e lo zaino, che
dapprima cigola, ben stretto sui fianchi, ora invece è sceso un po’,
aggrappandosi alla schiena come una scimmia, spezzandomi il fiato.
Abbiamo
abbandonato l’auto alla Majelletta; ci siamo lasciati indietro
asfalto, cartelli e Madonnina al Blockhaus, seguendo come pellegrini
il sentiero che striscia dapprima tra i pini mughi puntando dritto al
bastione del Monte Focalone. Un sorso d’acqua presso la piccola
fonte Acquaviva, ultima sorgente per i prossimi due giorni, e già
bisogna affrontare il pendio: passi corti e respiro breve. La luce è
quella del tardo mattino, troppo forte per qualsiasi foto. Eppure,
nascoste dall’umida ombra delle prime balze di roccia a fianco del
sentiero, inaspettate soldanelle del calcare mi fanno fermare di
botto. Questa fioritura tardiva in luglio mi offre la rara occasione
di poter fotografare la loro delicatissima corolla viola
pallido-rugiada, forse più adatta a decorare una bomboniera che i
fianchi di una montagna così brulla e selvaggia.
“Mi
fermo cinque minuti a scattare!” urlo a mio fratello, che decide di
procedere a passo lento. “Che ipocrita...”, penso di me quando i
minuti diventano un’ora. Solo quando mi accorgo di avere il sole a
picco sulla testa - mezzogiorno, decido che le decine di foto
scattate ai piccoli fiori sono abbastanza. Salgo a fatica le poche
centinaia di metri (inclusi due passaggi delicati su dei nevai) che
mi dividono dal bivacco Fusco, sotto il sole, ma godendomi i capolini
di tanti fiori che qua e là stanno sbocciando. Proteggendo ben due
terzi dell'intera flora italiana e un numero pazzesco di endemismi,
il massiccio della Majella è infatti una vera “Mecca” per gli
appassionati di flora selvatica.
Mio
fratello è lì che mi aspetta paziente, sull’uscio del piccolo
edificio giallo e spartano, senza aver ancora toccato cibo. Mi tolgo
lo zaino, cambio la maglietta madida e iniziamo a preparare un pasto
semplice: pane, olio e pomodoro. Un tocchettino di formaggio pecorino
a testa e un sorso di rosso, che ci siamo concessi come unico lusso,
travasando una bottiglia di vetro in una di plastica da mezzolitro.
Nuvolette bianche, l’Anfiteatro delle Murelle, un’aquila reale
lontana e due camosci su una cresta sono il nostro digestivo. Viste
le tante ore che ci separano ancora dal tramonto e dall’attività
fotografica, decidiamo di riposare un po’ nel bivacco. L’allarme
suona alle 16.30 e ci troviamo di fronte ad un’altra montagna:
l’arrivo improvviso di un vento freddo e forte, che ha portato con
sè delle dense nuvole grigie. Addio sole e estate. Pantaloni lunghi,
maglia di pile e giacca a vento: le due-tre ore che ancora ci
separano da Monte Amaro, la vetta della Majella, e dal bivacco Pelino
costruito sulla sua cima non saranno facili. E infatti, neanche
arrivati sul pianoro sommitale del Focalone, il vento fortissimo ci
fa desistere dall’impresa.
Meno male che almeno un camoscio si è
regalato improvvisamente alla mia fotocamera. Meglio fermarci qui a
fotografare con l’ultima luce e rientrare poi al bivacco per la
notte. Ogni tanto, il sole sfugge alla coltre di nubi color cenere,
incendiando la Cima Murelle e il commovente Monte Acquaviva (per me
la cima più bella del Parco Nazionale della Majella). Inutile
tentare di usare il cavalletto: il vento è troppo forte. Posso solo
sporgermi sul ripido pendio rivolto ad est, più riparato dal vento,
per cercare di fotografare i fiori contro le montagne di sfondo. Devo
muovermi con molta attenzione, sia per non calpestare le piante,
quasi tutte specie endemiche o molto rare, sia per non precipitare di
sotto: sono felice di non essere, per una volta, da solo! La fatica e
la pazienza di aver portato me stesso e attrezzatura sino a questa
quota e in queste condizioni sono ben presto ripagate dalla scoperta
di un’abbondante fioritura di Adonis
distorta, mitica
Ranunculacea dell’Appennino Centrale, nel ghiaietto di un versante
molto acclive. Schiacciato a terra, reflex e grandangolo ben stretti
nei guanti, scatto brevi raffiche in apnea, nella speranza di
cogliere i pochi istanti in cui il vento lascia in pace le loro
corolle dorate. Qua e là scovo altre rarità, come il ranuncolo di
Seguier, l'androsace vitaliana e il genepì appenninico: quanto ci
sarebbe da fotografare, se il vento lasciasse me e fiori un attimo in
pace...
Anche dopo il tramonto, il vento non cessa; le nuvole hanno coperto il massiccio del Gran Sasso, ma non le spiagge del Mare Adriatico, che sembrano distare qualche migliaio di chilometri da quel freddo incredibile. Sulla mia testa, decine di neri gracchi corallini e alpini volano, maestri nel giocare con le correnti d’aria. Davanti a me una pista di lupo che non avevo notato all'andata consacra una lingua di neve. Rintontito dalle raffiche, riscendo al bivacco, dove scopro che io e Matteo non saremo soli quella notte, ma dovremo condividere i pochi metri quadri a disposizione con tre simpatici e loquaci ragazzoni di Pescara. Ci presentiamo sull’uscio del bivacco che è buio. Accendiamo qualche candela e le torce frontali e ci chiudiamo dentro, con il vento che ulula fuori. Tiriamo fuori le rispettive bottiglie di rosso e facciamo un brindisi, iniziando quella che sarà una lunga notte...
Anche dopo il tramonto, il vento non cessa; le nuvole hanno coperto il massiccio del Gran Sasso, ma non le spiagge del Mare Adriatico, che sembrano distare qualche migliaio di chilometri da quel freddo incredibile. Sulla mia testa, decine di neri gracchi corallini e alpini volano, maestri nel giocare con le correnti d’aria. Davanti a me una pista di lupo che non avevo notato all'andata consacra una lingua di neve. Rintontito dalle raffiche, riscendo al bivacco, dove scopro che io e Matteo non saremo soli quella notte, ma dovremo condividere i pochi metri quadri a disposizione con tre simpatici e loquaci ragazzoni di Pescara. Ci presentiamo sull’uscio del bivacco che è buio. Accendiamo qualche candela e le torce frontali e ci chiudiamo dentro, con il vento che ulula fuori. Tiriamo fuori le rispettive bottiglie di rosso e facciamo un brindisi, iniziando quella che sarà una lunga notte...
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