La
notte è passata lentamente, tra il russare dei compagni di rifugio e
il vento che scuoteva il bivacco. L'orologio ha suonato alle 4.30 ma
ero già sveglio: fuori la tempesta. Una veloce occhiata al volto
assonnato di mio fratello e ci siamo girati dall'altra parte. Non
potevamo far altro che aspettare.
Il
vento no, ma la pioggia almeno si è fermata verso le otto. Ci siamo
allora alzati e fatto pigramente colazione e preparativi per la
partenza. Dopo un terribile caffé solubile, pane e cioccolata
eravamo stoicamente in marcia per Monte Amaro, la cima più alta
della Majella. Appena risaliti sul pianoro del Monte Focalone, il
vento ci ha di nuovo assaliti, stavolta con nuvole basse e una nebbia
che ci accompagneranno per tutto il percorso. Lungo il sentiero, nel
luogo chiamato “Primo Portone”, abbiamo incontato ancora un bel
gruppo di camosci sparsi tra le meravigliose fioriture di Adonis,
Doronicum, Isatis, etc. Il vento ci sferzava il volto e non ci siamo
vergognati di indossare cappello di lana e guscio in gore-tex alle 10
di mattina di un giorno di Luglio... Aveva ragione il grande Giorgio
Manganelli quando aveva definito l'Abruzzo “grande produttore di
freddo e di silenzio.”
Ogni tanto, facevo lo sforzo di guardare in
aria e, come sempre, superior
stabat gracchio, con
la sua maestria di volo anche con le raffiche più sostenute. Abbiamo
assistito anche all'incredibile attacco di un velocissimo falco
pellegrino ai danni di uno stormo di gracchi, che si sono inseguiti
nel vento, come veloci sardine davanti a un tonno. Eravamo senza
parole.
Sali
e scendi. Sali e scendi. Ogni tanto una breve sosta per scattare
qualche immagine all'orrido della “Mucchia di Caramanico” che
incide profondamente la testata della Valle dell'Orfento o alle
tardive pulsatille cresciute a bordo sentiero.
Superato
il secondo “Portone”, la nebbia si è sollevata giusto per una
quindicina di minuti, svelando lo straordinario paesaggio primordiale
della Valle Cannella. Tutte le doline di questa valle nata dalla
forza di un ghiacciaio erano ancora piene di neve e la sensazione di
essere sospesi tra l'estate mediterranea e l'era glaciale era forte.
Ubriaco di questi spazi e dell'imponenza della visione scatterò sì
e no trecento fotografie in meno di dieci minuti. Mi sono voltato un
attimo, facendo appena in tempo a notare un puntino nero svanire
nella nebbia in lontananza davanti a me: Matteo mi ha lasciato
indietro e sta già per salire sulla cresta di Monte Amaro. Lo volevo
raggiungere per non rischiare che uno di noi resti solo in queste
condizioni meteorologiche, in cui è davvero troppo facile perdersi.
L'ultima ora di cammino è avvenuta nella nebbia più fitta e sotto leggere scariche di pioggia. La visibilità era così scarsa che quasi andiamo a sbattere contro il bivacco Pelino dal vivace colore rosso. Metà base spaziale, metà centro ricerche antartico, questa buffa struttura è un rifugio proprio in cima alla Majella. Considerazioni estetico-conservazionistiche a parte, eravamo felici di poterci riparare dal vento incessante e poterci cambiare i vestiti bagnati. Peccato che, una volta entrati, abbiamo dovuto constatare ancora una volta come in Italia addirittura il popolo degli escursionisti se ne freghi del bene pubblico. Sacchi ancora pieni di immondizia (addirittura resti di cocomero e bottiglie di vino in vetro!), fazzoletti, cartacce e altre schifezze riempiono il pavimento del bivacco; sotto una volta imbrattata da sciocche scritte tipo “Marta was here” oppure “Siamo i chiu forti!” di chiara matrice locale... Pazienza. Data una pulita sommaria, svuotando anche una bottiglia piena di.. urina (sic!), ci siamo cambiati e ci siamo infilati nel saccoapelo. Era l'una del pomeriggio e la sera non prometteva niente di buono. Ero un po' afflitto: temevo che tutto quello sforzo sarebbe stato inutile e che la missione sarebbe stata da ripetere.
La
sveglia ha suonato alle 16.45 e ci siamo svegliati come da un coma.
Fuori il vento ululava ancora ma la luce del sole entrava dagli oblò.
Sono uscito tenendomi a fatica nel vento fortissimo, ma mi sono
subito reso conto che quelle pazze condizioni atmosferiche stavano
preparando un grande spettacolo per la serata. Il tempo di prendere
il marsupio fotografico e il treppiedi e ci siamo avviati verso il
Piano Amaro, pazzesco francobollo di tundra artica nel cuore del
Mediterraneo, e vera meta della missione.
Ho
coperto i pochi chilometri tra Monte Amaro e Cima dell'Altare in un
tempo lunghissimo. La spettacolare Valle di Femmina Morta; il colpo
d'occhio su Monte Sant'Angelo e Monte Acquaviva; le ondulazioni del
Piano Amaro. Ovunque luci mutevoli, nuvole multicolori, camosci e
fiori di tante specie diverse chiedevano giustizia alla mia reflex.
Su una roccia precipite mi sono anche sporto (con mio fratello appeso
alla cinta per controbilanciarmi...) per fotografare una piantina
della rarissima e commovente Androsace mathildae cresciuta in una
fessura. Il tempo è passato velocemente, così come velocemente è
tornata la nebbia. Soltanto che stavolta il sole era più forte,
riuscendo a filtrare. Sono le luci così a rendere la fotografia in
montagna così speciale. Nonostante fatica e tempo, non rinuncerei
mai a questi momenti in alta quota.
In un attimo, la giornata sembrava volgere al termine, ma la Majella ci riservava il suo ultimo colpo di scena. In un cielo che volgeva nuovamente al nero, si è aperto improvvisamente un varco, e una luce viola intenso ha colorato le cime in lontananza, squisitamente incorniciate dalle nubi grigio-blu. E' stato un istante e non ho avuto nemmeno il tempo di piazzare il treppiedi: le foto sono bellissime, ma ahimé leggermente mosse. Mi sono morso il labbro quando le ho ricontrollate sullo schermo della macchina; ma poi ho sorriso, perché non era così importante: nel cuore avrei avuto sempre ben impressa l'immagine indelebile di quella magica serata sulla Montagna Madre.
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