Parco Naturale Regionale Sirente Velino, Abruzzo - 2 Febbraio 2015
Per chi attraversa in
auto l'Altipiano delle Rocche, vasta piana montana tanto bella e
unica quanto bistrattata da speculazioni e lottizzazioni, partendo da
Ovindoli e dopo aver superato il piccolo borgo di Rovere, lo sguardo
spazia dalle cime dei Monti Ocre e Cagno a sinistra, per sollevarsi
sull'imponente catena del Gran Sasso e venire infine attratto da una
misteriosa parete rocciosa, lontana e selvaggia, ruvida ed
indimenticabile. Viene quasi naturale svoltare a destra per andare a
curiosare di cosa si tratti. Da lì, la strada attraversa una bella
faggeta ed è lunga e tortuosa. Dopo qualche chilometro, quasi
all'improvviso la vista si apre su una piana e soprattutto sulla
meravigliosa parete del Monte Sirente, forse la più “dolomitica”
delle cime appenniniche. Strana montagna, questa: morbida ed ondulata
a meridione, precipita invece per diverse centinaia metri a nord,
creando una parete lunghissima che sovrasta per chilometri lo
Shangri-La che è la remota Valle Subequana.
Quella notte aveva
nevicato tanto, ma poi il cielo si era aperto e la temperatura era
scesa parecchio sotto lo zero. Sapete: sono zone proprio freddissime,
queste. Le ruote della macchina scricchiolavano sulla neve gelata e
io prundentemente guidavo pianissimo. Ciò però anche per avere la
possibilità di ammirare gli alberi carichi di neve e la prima luce
giocare con mille riflessi sul manto bianco purissimo e tra le trine
e merletti delle costruzioni glaciali. C'ero solo io. Che lusso
uscire sul campo di lunedì mattina presto! Per un attimo il pensiero
mi era andato sadicamente alle persone nel traffico in quel momento
sul Raccordo Anulare di Roma o in cento altre città italiane... Amo
questa vita!
Dai piedi della montagna,
sino alla cima, tutto era gonfio di neve, così perfetta da sembrare
panna montata. Uno spicchio di luna ancora faceva capolino in cielo.
Ho accostato e poi spento l'auto e, nonostante il tepore
dell'abitacolo, mi sono fatto forza e sono sceso. Il silenzio si era
ripresto tutto.
I pinnacoli di roccia
della parte più occidentale della parete rocciosa erano tutti
incrostati di ghiaccio e splendevano come denti bianchissimi. Le
rocce e le balze delle gigantesche meringhe. Poco sotto faggi
secolari sembravano batuffoli di cotone. Tutto era fermo,
ineluttabilmente congelato nell'aria mordace del mattino. Solo una
volta ho sentito il richiamo di una cincia coraggiosa. A pochi metri
da me la coltre bianca era punteggiata di segni: tra i cespugli era
passato un timido capriolo; le impronte telegrafiche di una volpe
indaffarata si sviluppavano in linee e circonvoluzioni attorno a
quelle da “aratro” di un grosso cinghiale. Un po' più in là
riuscivo poi a scorgere la pista tesa e consapevole di due lupi che
avevano attraversato la radura. Bello come le storie della notte
fossero lì, pronte ad essere raccontate a chi prestasse attenzione!
Ma questa volta non avevo tempo.
Senza pensarci su troppo
ho montato il 70-200 sulla reflex ed entrambi sul treppiedi. Avevo in
mente diverse inquadrature strette delle rocce e delle cenge
innevate. Dopo il sorgere del sole si era sollevato il vento. L'aria
in quota faceva sollevare la neve fresca come zucchero su un pandoro.
Stralci di nuvole giocavano in cresta creando ogni volta uno sfondo
diverso. La luce rimbalzava gialla sui crinali, intensificando il blu
delle aree in ombra e delineando i diversi piani. C'era da muoversi
in fretta, prima che finisse tutto. Dettagli o visioni più ampie;
panoramiche e verticali: mi sono lasciato prendere dal gioco
intellettuale della composizione. Ne dovevo approfittare: più tardi,
infatti, avrei calzato scarponi invernali e ciaspole, per avvicinarmi
piano piano a quel regno di ghiaccio e solitudine...
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